Il 2021 si apre con una triplice opportunità
Quello che ci lasciamo alle spalle è un anno drammatico. Un 2020 partito con il rischio di una guerra regionale dopo l’assassinio statunitense del generale iraniano Qassem Soleimani, per poi essere travolto dalla pandemia di Covid-19, con le sue quasi due milioni di vittime ad oggi. È stato un anno in cui l’esistenza stessa dell’Unione europea era a rischio qualora non fosse emerso un comune denominatore di solidarietà tra gli Stati membri. Un 2020 in cui si è delineata una nuova bipolarità conflittuale tra Stati Uniti e Cina, e in cui la cooperazione internazionale non è mai stata così necessaria ma anche così carente.
Il 2021 che ci attende è un anno in cui le sfide così come le opportunità sono più chiare, ma le incertezze rimangono enormi.
L’Unione europea non è crollata sotto il peso della pandemia. Nelle prime drammatiche settimane del Covid-19 in Europa, quel silenzio assordante delle istituzioni europee, le disordinate chiusure delle frontiere nazionali e le spregevoli restrizioni di esportazioni di materiale medico riesumavano lo spettro nazionalista della non-Europa. Ma quello spettro lo hanno visto chiaramente i leader europei, a partire dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, approvando prima a luglio e infine a dicembre un piano ambizioso di 750 miliardi, incardinato in un bilancio pluriennale europeo di 1800 miliardi.
Con l’approvazione del bilancio europeo e, in extremis, dell’accordo commerciale e di cooperazione tra Unione europea e Regno Unito che mettono fine a quasi cinque anni di una Brexit lacerante, il progetto europeo guarda il futuro con fiducia. Le sfide sono enormi e gli esiti tutt’altro che scontati.
La battaglia sulla distribuzione equa e efficace dei vaccini, non solo in Europa, ma nel mondo intero, è appena iniziata, ostacolata da egoismi nazionali, governance inefficaci e incertezze mediche. A più ampio spettro, la sfida del Next Generation EU è ancora tutta da superare: è stato complesso raggiungere un accordo sul bilancio europeo, ma sarà infinitamente più difficile assicurare che i fondi a disposizioni siano ben spesi, innescando non solo una ripresa economica verde e digitale ma anche una crescita che generi convergenza all’interno dell’Eurozona.
Il multilateralismo è stato messo a dura prova nel 2020. Per oltre dieci anni, politologi internazionali si sono interrogati sull’emergente multipolarismo globale, chiedendosi se avrebbe rafforzato o meno il multilateralismo. Oggi quella risposta l’abbiamo ricevuta, e purtroppo non è rassicurante. Con il consolidamento del conflitto tra Stati Uniti e Cina, il sistema multilaterale è stato messo a dura prova. Dal Consiglio di sicurezza dell’Onu all’Organizzazione mondiale del commercio, dall’Organizzazione mondiale della sanità al regime sul controllo degli armamenti nucleari, molte sono le potenziali vittime del nuovo assetto internazionale.
L’indebolimento del multilateralismo non poteva accadere in un momento peggiore. Mai come oggi sappiamo che tutte le sfide più grandi del ventunesimo secolo sono squisitamente transnazionali. Dalle pandemie ai cambiamenti climatici, dal digitale alla proliferazione nucleare, tutte le minacce a cui dobbiamo far fronte richiedono multilateralismo e cooperazione internazionale.
A questo aggiungiamo che l’emergente conflittualità tra Stati uniti e Cina non ha connotati esclusivamente settoriali, ma una più ampia dimensione politico-ideologica che riecheggia la Guerra Fredda. In altre parole, quello tra Washington e Pechino non è un conflitto fatto solo di dazi commerciali e 5G, di controllo del Mare meridionale cinese o di libertà politiche a Hong Kong o Taiwan. Ognuna di queste dispute settoriali cela un più ampio conflitto ideologico: qual è il migliore sistema politico, la liberal democrazia o il capitalismo autoritario? La risposta è infinitamente meno scontata di quanto non fosse durante la Guerra Fredda. Quello tra Stati Uniti e Unione sovietica era un conflitto reale fatto di testate nucleari e guerre per procura. Ma bastarono pochi anni di bipolarismo per rispondere con relativa chiarezza alla domanda politica di fondo: i tentativi di fuga erano da est a ovest, non viceversa.
Oggi la risposta di fondo non è altrettanto scontata. Sappiamo che, a differenza di quanto predicato per decenni, le libertà politiche e la prosperità economica non vanno sempre di pari passo. La Cina popolare dimostra il contrario. Né possiamo affermare che le liberaldemocrazie siano più efficaci dei sistemi autoritari nell’affrontare sfide esistenziali come una pandemia. Non esiste, ad oggi, una risposta netta alla domanda. Sì, la Cina si è dimostrata fino ad ora più efficace degli Stati Uniti fronte coronavirus, ma lo sono state anche democrazie come Taiwan, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Ed è vero che le democrazie in America e Europa non hanno brillato nell’ultimo anno, ma non lo hanno fatto neanche sistemi illiberali come Russia e Turchia. Non c’è risposta univoca a una domanda complessa.
Le sfide che ci attendono sono ardue e le risposte che saremo chiamati a dare tutt’altro che scontate. Eppure il 2021 si apre con una triplice opportunità.
C’è l’opportunità di rilanciare il progetto europeo attraverso una ritrovata solidarietà politica, un passo avanti nell’integrazione economica e una nuova narrazione che parla di un’Europa verde, digitale e strategicamente autonoma. C’è l’opportunità di rilanciare il multilateralismo attraverso una ritrovata amicizia con gli Stati uniti di Joe Biden, intento a rinsaldare le vecchie alleanze così come impegnarsi di nuovo nella governance globale. E infine c’è la più diffusa, ma altrettanto cruciale opportunità di ascoltare quella mobilitazione dal basso, dai Fridays for Future a Black Lives Matter, che ci spingono ad affrontare con convinzione le diseguaglianze e le ingiustizie sociali, economiche, generazionali, geografiche, etniche o di genere, sapendo che chiudere gli occhi un’altra volta significherebbe mettere a rischio l’essenza stessa di una società aperta.