I traguardi dell’Australia. Parla l’ambasciatrice italiana a Canberra
Da “giovani” a “uniti”. L’ultimo passo avanti dell’Australia è stato il cambio all’Advance Australia Fair, l’inno nazionale australiano, per celebrare i popoli aborigeni nel continente da 65 mila anni. Perché integrare la comunità che di fatto ha costituito “la prima nazione, prima dell’arrivo degli europei sul suolo australiano” era uno dei traguardi di Canberra che l’ambasciatrice italiana in Australia, Francesca Tardioli, aveva segnalato nel corso dell’intervista. Tanti gli spunti nati nel corso della conversazione: dalla gestione della pandemia di coronavirus agli incendi, passando per i grandi settori in crescita, come le energie rinnovabili e lo spazio, ma anche quelli consolidati, come gli scambi commerciali, con il Regional Comprehensive Economic Partnership.
Ambasciatrice, Italia e Australia sono due Paesi distanti ma allo stesso tempo vicini fra loro. Quali sono i rapporti che legano due Stati così lontani?
“Sono rapporti stratificati nel tempo. Intanto, vorrei ricordare la grande eredità culturale e sociale che deriva dal fatto che, essendo stata l’Australia uno dei Paesi di destinazione degli immigrati italiani per più di un secolo, oggigiorno abbiamo in Australia più di un milione di australiani di origine italiana, molti mantengono la doppia cittadinanza, e questo chiaramente conferisce una base di eredità culturale e sociale molto forte.
L’influenza culturale è molto presente, molto ben visibile. Gli australiani amano il nostro Paese e l’impronta dell’italianità, portata nel corso del tempo, è estremamente evidente e visibile. Un esempio per tutti: la nuova sede del Parlamento federale di Canberra, progettata e costruita da un architetto italiano. Dopodiché c’è anche la presenza di praticamente tutti i grandi gruppi industriali italiani. A partire dai settori tradizionali, che sono quelli delle infrastrutture. Ricordo, uno per tutti, il grandissimo progetto della centrale idroelettrica Snowy Hydro, sopra Sydney, che fu costruito decenni fa dagli italiani, e che adesso verrà completamente rinnovato, sempre da aziende italiane. Poi vi sono i settori più recenti, che possono essere per esempio le energie rinnovabili, dove abbiamo tutti i nostri gruppi presenti, e il settore dello spazio. Non tutti lo sanno, ma c’è una grande collaborazione con questo settore, sia tra le due agenzie (agenzia spaziale italiana e agenzia spaziale australiana), sia a livello aziendale, con molte aziende italiane con sede anche a Canberra. La presenza di importanti gruppi industriali italiani in Australia è ben radicata. Per non parlare poi dell’import-export, che è estremamente positivo, soprattutto per quello che riguarda il made in Italy. Come dicevo l’Italia è molto amata, dal cibo fino alla bellezza che contraddistingue i nostri prodotti, che siano vetture che siano oggetti di design”.
E dal punto di vista politico?
“Politicamente parlando, c’è l’appartenenza comune allo stesso gruppo di Paesi vicini in tutti i fori internazionali. Sediamo nello stesso gruppo, che si chiama Weog (The Group of Western European and Other States), condividiamo valori, approcci nelle principali sedi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e molti altri. Infine, c’è una collaborazione molto forte tra Australia, Unione europea e Stati Membri. I rapporti sono quindi molto buoni e consolidati, e noi vogliamo ancor più migliorare e intensificare, ed è questo uno dei miei compiti da quando ho assunto le funzioni di ambasciatrice a Canberra un anno e tre mesi fa circa”.
Ambasciatrice, un inevitabile accenno al coronavirus. L’Australia è tra i Paesi che è riuscita a ridimensionare meglio la pandemia. A oggi nessun paziente è ricoverato in terapia intensiva. Come ci si è arrivati?
“Si è vero, l’Australia ha gestito la pandemia in maniera vincente. Ci sono dei motivi che vanno ricordati, perché l’evoluzione della pandemia in Australia è stata diversa rispetto all’Europa. Si è dovuta confrontare con questo virus già a dicembre 2019 e gennaio 2020, quando ancora non si sapeva molto a riguardo. Si sapeva però che c’erano degli importanti focolai anche in un grande Paese vicino, come la Cina, e a quel momento, (bisogna tenere presente la contro-stagionalità, quindi dicembre e gennaio in Australia è estate), dunque gli studenti cinesi erano rientrati nelle loro case per le vacanza, in tantissimi australiani di origine cinese avevano fatto rientro magari in Cina per il capodanno cinese, dunque già in quel momento, in cui i cittadini australiani e gli studenti cinesi rientravano dalle vacanze, il governo aveva già messo in piedi un sistema di controllo e di quarantena, che ha funzionato e ha impedito il proliferare nel paese di focolai che poi sarebbero stati difficili da gestire.
Dopodiché, passata più o meno indenne questa fase, è arrivata una nuova ondata di pandemia – all’epoca a quel punto si parlava già di pandemia – attraverso i viaggiatori, e quindi le città in cui si cominciati a vedere focolai sono state prima Sydney poi Melbourne. Perché queste due? Perché sono le città dove hanno sede gli aeroporti internazionali più importanti. A quel punto, confrontandosi con le varie realtà che nel frattempo si erano sviluppate in varie parti del mondo, e purtroppo anche in Europa, a quel punto è stato imposto un lockdown, il 18 marzo è stato imposto un lockdown totale come è stato fatto anche in Italia. Il lockdown in Australia è durato diversi mesi. Uno degli elementi portanti di questo lockdown è stata la chiusura totale dei confini esterni, e anche dei confini tra Stato e Stato. Dobbiamo ricordare che l’Australia è appunto uno Stato federale. Questo ha permesso un controllo capillare degli arrivi, che sono stati veramente centellinati, tutte le persone che rientrano vengono messe in quarantena obbligatoriamente e questo ha fatto si che, tranne in un paio occasioni abbastanza serie, in particolare nello Stato del Victoria che ha subito un secondo lockdown totale, però nel complesso la pandemia è stata gestita in maniera diciamo da provocare meno danni possibile alla salute umana. Naturalmente, ci sono dei motivi importanti, le differenze geografiche, tanto per citarne una. Purtroppo, la geografia conta. Dobbiamo ricordarci che stiamo parlando di un paese che è un continente. Tanto per dare un numero, la superficie dell’Italia è 1/4 di uno degli Stati che compongono la confederazione australiana. In Italia abbiamo circa 60 milioni di abitanti, in Australia ce ne sono 26 milioni. Di conseguenza, è diversa la modalità di partenza, e questo ha avuto un ruolo importante nella gestione della pandemia, che sicuramente ripeto è comunque un caso di scuola di successo. Questo gli va riconosciuto assolutamente”.
La popolazione come ha reagito di fronte alle restrizioni messe in campo?
“C’è stato in un primo momento grande sconcerto, grande paura anche, come tutto il mondo anche per le conseguenze economiche che il lockdown avrebbe portato, però le persone naturalmente si sono adeguate e il confinamento è stato rispettato. C’è stato un approccio molto collaborativo da parte della popolazione. Com’è successo in Italia, e un po’ in tutto il mondo, c’è stata una gravissima ripercussione dal punto di vista economico, con perdite importanti di posti di lavoro che hanno creato difficoltà importanti. Come anche altri governi, il governo australiano ha posto in essere pacchetti di sostegno all’economia, alle aziende, soprattutto le piccole e medie imprese, sostenendo anche l’occupazione, in qualche modo, con sussidi di varia natura, che possono essere assimilati alla cassintegrazione o altri tipi di sussidi messi in atto.
Il primo lockdown è stato molto sofferto naturalmente da tutti, ora c’è una ripresa lenta, ma evidente, perché la pandemia è sotto controllo, dunque diciamo che grossomodo l’opinione pubblica ha sostenuto le scelte del governo, e del governo centrale e dei governi statali, che a volte hanno messo in atto delle misure ancora più draconiane, tipo la chiusura dei confini tra i vari Stati, e questo ha portato grandi disagi come le famiglie divise per mesi. Ma ora che si sono visti i risultati la reazione della popolazione è di sostegno”.
Ambasciatrice, può raccontarci quali sono le politiche migratorie e di integrazione in Australia e come esse sono applicate sugli italiani?
“L’Australia, come ho già accennato, è un paese scarsamente popolato. Quindi fa molto affidamento su una immigrazione controllata. Ci sono dei canali possibili di immigrazione, soprattutto per personale qualificato. Ci sono anche altre formule che molti dei nostri giovani utilizzano. Mi riferisco alla possibilità di ottenere un visto per un anno, una volta nella vita, un visto vacanza/lavoro, che consente agli studenti appena usciti dalle scuole o dall’università che vogliono farsi un esperienza, o un anno sabatico, magari vivere una realtà completamente diversa, di poter appunto avere accesso all’Australia e lavorare per alcune ore per mantenersi per questo periodo, e questa è una finestra di opportunità che molti dei nostri giovani hanno utilizzato e utilizzano. Esistono varie casistiche di visto per categorie, più o meno specializzate.
Dunque, i canali ci sono e sono applicati ai connazionali italiani, ma diciamo a tutti gli stranieri che desiderano in qualche modo di tentare di avere un esperienza lavorativa in Australia. All’inizio si deve avere uno sponsor, quindi un’azienda che si fa carico della presenza sul territorio del personale dei cittadini non australiani e dopo diversi anni, a seconda dei diversi percorsi, si può arrivare ad avere la residenza permanente che garantisce la possibilità di rimanere in maniera stabile nel Paese, fino ad ottenere anche, alcuni anni dopo, la cittadinanza. Quindi, è una società molto multiculturale, è da sempre così, è nata così, e lo è tutt’ora proprio per favorire una crescita demografica che altrimenti non sarebbe possibile, che è fondamentale per mantenere un certo tenore, un certo livello di sviluppo dell’economia”.
Ci sono molti italiani che hanno deciso di vivere in Australia. Come si pone la popolazione australiana di fronte alla migrazione italiana?
“Se parliamo della migrazione più recente, quella che chiamiamo la nuova mobilità, diciamo che la società è molto aperta e accogliente, e i nostri giovani sono bene accetti come tutti gli altri. Ci sono dei settori in cui gli italiani sono più inclini a trovare lavoro, soprattutto nel settore ospitalità, e quindi non mi risulta che ci siano episodi di intolleranza o di difficoltà. Naturalmente, non era così nel passato. Negli anni dell’immigrazione subito successiva alla guerra la situazione era diversa, ma questa è una realtà con cui tutti gli immigrati si sono sempre confrontati – non necessariamente solo gli italiani, e non necessariamente solo in Australia. Però devo dire che la società australiana è davvero molto aperta e ricettiva, veramente multiculturale. E’ una buona piattaforma di partenza per chi volesse sperimentare un periodo di vita, anche professionale, in un paese diverso dal nostro”.
Neanche un mese fa è stata firmata la Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un accordo regionale tra i dieci Paesi dell’Asean e altri cinque Paesi di Asia e Oceania, tra i quali l’Australia. Un’intesa di portata storica e un mercato di libero scambio paragonabile a quello attuale dell’Unione europea?
“Si è molto parlato del Regional Comprehensive Economic Partnership, che sicuramente in principio è un accordo regionale estremamente importante, perché nel medio e nel lungo termine ovviamente porterà a un’ulteriore integrazione di questa grande area economica che noi chiamiamo indo-pacifico. Però non ci dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un accordo appena finalizzato che dovrà essere ratificato, quindi i benefici si potranno vedere a più a lungo termine.
Questo però non vuol dire che la regione indo-pacifico non sia già di grande rilevanza strategica, sia economicamente sia per la sicurezza mondiale, perché anche oggi il peso congiunto di tutte le economie della regione, escludendo quelle più grandi (Usa e Cina), è addirittura pari al 20% del Pil mondiale. Una volta che il Rcep entrerà in vigore, se e quando entrerà in vigore, a quel punto ci sarà una regione economica comparabile e in qualche modo integrata come l’Unione Europea. Devo però aggiungere che l’Australia sta perseguendo già da tempo un’azione importante di integrazione tra la propria economia e le altre economie emergenti dell’area indo-pacifica. Ad esempio, già nel corso dell’ultimo anno c’è stata un importante firma di una comprehensive strategic partnership con l’India e con altri paesi importante dell’area: Papa Nuova Guinea, Tailandia, Indonesia, Vietnam, Usa e molti altri.
Perché dico questo? Per segnalare che l’Australia è sicuramente una delle grandi democrazie che cerca di mettere in piedi un sistema di accordi e di libero scambio che poi potranno confluire anche in quello più grande citato prima, il Rcep, che ha una particolarità, e cioè che include la Cina. Però non include l’India per esempio. Quello che vorrei sottolineare è l’importanza del grande lavoro che l’Australia fa, insieme alle altre economie della regione, per addivenire ad una serie di accordi anche bilaterali che portino ad una maggiore liberalizzazione degli scambi economico commerciali. Naturalmente, non da ultimo, è in corso di negoziazione l’accordo di libero scambio tra Australia e Unione europea, e anche lì una volta che l’accordo sarà finalizzato si apriranno per entrambe le regioni economiche ulteriori prospettive. Parlo di ulteriori, perché le due aree hanno un interscambio già molto importante, però chiaramente una volta finalizzato un accordo di libero scambio con l’abbattimento delle tariffe, è evidente che quello sarà un tassello fondamentale per questa rete internazionale di accordi di libero scambio che sottende un po’ la filosofia di collaborazione che accomuna i Paesi molto vicini anche in quelli che sono i loro approcci di condivisioni dei valori.
Ora che il Regno Unito lascia l’Ue, l’Australia è in negoziato anche con il Regno Unito per un accordo di libero scambio, dunque c’è tutta una rete da tenere presente di cui il Rcep sicuramente farà parte, ma va inquadrato in questa dimensione più stratificata”.
L’Australia è parte del Commonwealth, e la regina Elisabetta II è ancora formalmente il capo di Stato della nazione. Come il Paese, e i suoi cittadini, si è posto di fronte l’uscita del Regno Unito dall’Europa? Questa separazione comporterà dei cambiamenti anche in Australia?
“Non c’è stato un grandissimo dibattito su questo specifico aspetto, sinceramente. Dunque, il fatto che il Regno Unito esca dall’Europa è un problema relativo. Lo è da punto di vista pratico, ma questo non scalfisce il rapporto diretto e privilegiato che c’è sempre stato tra Regno Unito e tutti i Paesi del Commonwealth, compresa l’Australia.
Cambiano delle cose naturalmente. Ad esempio, quando il Regno Unito era parte dell’Ue gran parte delle attività che l’Australia svolgeva passavano, se vogliamo utilizzare questo termine, tramite Londra. Per esempio, a Londra erano basati gli uffici di rappresentanza degli Stati federali che compongono l’Australia, e ora invece ovviamente gli stessi Stati si stanno guardando intorno e cominciando ad aprire i loro uffici di rappresentanza in altri Paesi dell’Unione europea. Questo di fatto aumenta, in un certo senso, l’importanza di finalizzare al più presto, per l’Australia e per noi, l’accordo di libero scambio con l’Ue per continuare a mantenere ed aumentare un’interazione benefica per tutti, cosa che prima veniva veicolata attraverso l’interazione con il Regno Unito”.
Più in generale, il fatto che la Regina ricopra il titolo di Sua Maestà Elisabetta II, regina d’Australia, come è percepito all’interno?
“Questo fa parte più delle tradizioni, non è assolutamente un argomento di discussione. Naturalmente, all’interno della società australiana ci sono dei movimenti repubblicani, ma non è sicuramente la priorità del Paese. La regina è rappresentata in Australia dal governatore generale che risiede a Canberra, e anche dai governatori che risiedono in ciascuno degli stati membri del Commonwealth. E’ una forte tradizione e così viene vissuta”.
Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 la parte Sud orientale dell’Australia è stata devastata da una serie di incendi boschivi. La città di Canberra ha registrato picchi di inquinamento atmosferico tali da far guadagnare alla città l’ultimo posto nella classifica sulla qualità dell’aria. Immagino che di fronte a questi eventi anche per l’Australia il climate change è visto come un grave problema. Conosce iniziative che il Paese sta portando avanti, anche a livello internazionale, per affrontare questa sfida?
“La stagione degli incendi dell’anno scorso è stata un trauma per tutti, ed è stata in qualche modo un’opportunità, se così la vogliamo chiamare nonostante la terribile devastazione, per incentivare una riflessione ulteriore sull’importanza del cambiamento climatico. E soprattutto è stato qualcosa che ha portato maggiore consapevolezza rispetto i legami che esistono tra le varie situazioni. Gli incendi devastanti dell’anno scorso sono legati ad altri eventi che si sono sviluppati in Antartide per esempio. Oggi anche a livello di opinione pubblica c’è maggiore consapevolezza sul fatto che, ancorché la stagione degli incendi è sempre esistita e sempre esisterà, come da noi in Italia, quando raggiunge dimensioni catastrofiche come quelle dell’anno scorso è evidente che il problema risiede altrove.
Dunque, c’è una maggiore consapevolezza a livello di opinione pubblica che si riflette anche sulle azioni che i governi stanno mettendo in atto. Qui parlo dei governi al plurale, perché bisogna fare una differenza. Dobbiamo differenziare tra le responsabilità attribuite ai governi statali e le responsabilità di policy attribuite al governo centrale. I governi locali sono già abbastanza avanti per quello che riguarda ad esempio le energie rinnovabili, è uscito il rapporto sulla messa in atto delle misure necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di contenimento e di lotta al cambiamento climatico da qui al 2030. Dunque, globalmente gli stati federali stanno lavorando nella direzione giusta. Per quanto riguarda la postura del governo federale c’è stato anche li un evoluzione di consapevolezza dell’importanza di accelerare certe decisioni e certe trasformazioni verso gli obiettivi comuni che tutti noi condividiamo e che si racchiudono in quelli definiti dall’Agenda 2030 e per quanto riguarda la differenza delle parti sul cambiamento climatico delle nazioni unite sull’obiettivo di raggiungere la neutralità per quanto riguarda le emissioni di Co2 da qui al 2050.
Su questo tema c’è un evidente evoluzione da parte del governo centrale ma non siamo ancora arrivati alla dichiarazione di veri e propri impegni su specifici target, ma sono certa che il lavoro che insieme faremo insieme all’Italia e nella Cop26, che come sapete l’Italia presiede in partnership con il Regno Unito, e ancora più importante, nel contesto del G20, sicuramente faremo dei passi avanti e sicuramente anche l’Australia farà ulteriori progressi. Molte cose già le stanno facendo, e anche molto bene. C’è ancora qualche sfumatura di differenza tra noi e gli australiani e altri Paesi per quanto riguarda lo zero netto: lì si vedrà quando e come il governo sarà pronto a dichiarare formalmente il proprio commitment, cosa che non è ancora accaduta. Ma nei fatti la realizzazione dell’agenda 2030, anche per quanto riguarda gli aspetti climatici, è abbastanza avanzata anche in Australia, più di quanto non sembri dall’esterno”.
Il Vanuatu, purtroppo, resta l’ultimo Paese per numero di donne in Parlamento, nonostante sia considerato tra i più progressisti tra le isole meridionali dell’Oceano Pacifico.
“Si, questo è sicuramente un dato accurato e si vedrà quello che potrà accadere. Comunque, in tutta l’area la problematica della rappresentatività femminile e della parità di genere è molto sentita, dove più, dove meno, magari anche per ragioni numeriche. Vanuatu è un Paese abbastanza piccolo, però nell’area ci sono Paesi che sono estremamente all’avanguardia. Dunque spero che possano fare da traino anche per quelli che ancora registrano numeri più bassi”.
Nella vicina Nuova Zelanda dal 2017 il capo del governo è una donna. Com’è, invece, la situazione delle donne in Australia?
“Il tema è molto importante. Rispondendo alla domanda precedente, parlando degli altri Paesi dell’area, mi riferivo senz’altro anche all’Australia e alla Nuova Zelanda, dove il governo guidato da Jacinda Arden è stata riconfermato con una maggioranza ancora più numerosa. Questo anche grazie al suo modo di concepire il ruolo politico, che è stato estremamente apprezzato anche durante la grandissima tragedia dell’attentato di Christchurch, ma anche per le modalità con cui il governo ha condotto la gestione della pandemia.
Venendo all’Australia, anche qui siamo ben messi da questo punto di vista. Innanzitutto, per ragioni storiche. Approfitto per ricordare che l’Australia concesse il suffragio universale già, se non erro, all’inizio del ‘900. Prima della formazione dell’Australia odierna, già l’Australia meridionale, che all’epoca era ancora una colonia britannica, già nell’800 aveva concesso il suffragio universale alle donne. Dunque, c’è una tradizione molto forte di uguaglianza di genere e, potete vedere, anche nella composizione dell’attuale governo, il governo Morrison. Molti dei ministeri chiave sono affidati a donne. Donna è il Woman empowerment, Marisa Payne. Donna è la ministra della Difesa; donna è anche la ministra dell’Industria della difesa e cosi via. La rappresentanza in parlamento è estremamente importante, ma anche la composizione stessa del governo riflette lo stato di avanzamento delle politiche di uguaglianza di genere nella società australiana, dove sicuramente c’è una consapevolezza già molto matura sulla necessità che tutte le voci vengano sentite e rappresentate. Un grande lavoro devo dire si sta facendo in Australia anche per integrare e riconciliare meglio con la comunità aborigena. Questo è un vulnus che però è ben riconosciuto da parte delle autorità australiane, che stanno mettendo in atto delle misure straordinarie anche di integrazione e di recupero con le popolazioni che hanno costituito la prima nazione, prima dell’arrivo degli europei sul suolo australiano”.
La sua carriera da diplomatica l’ha portata davvero a collezionare notevoli soddisfazioni, quale in particolare non dimenticherà facilmente?
“Questa è una domanda difficile. Non posso dirle precisamente quale perché ognuna le mie esperienze, come ha accennato lei, sono state molte e diversificate. Ho servito in molti Paesi, molte sedi bilaterali e anche in sedi multilaterali. In Paesi anche difficili per certi aspetti, e quindi ogni passaggio della mia carriera mi ha arricchito in qualche modo. È stata occasione di sviluppo personale e professionale, e quindi non c’è un esperienza più importante dell’altra. Tutte hanno concorso a rendermi la funzionaria diplomatica che sono oggi e tutte hanno concorso a costruire il bagaglio di conoscenze e di sensibilità con cui questo lavoro deve essere affrontato.
Perciò non ho rimpianti e devo dire che ho avuto anche la fortuna di avere avuto dalla mia parte un’amministrazione che già all’epoca non ha mai fatto discriminazioni. Appartengo a una generazione in cui entrando in carriera diplomatica eravamo solo due donne. Ora la situazione è ben diversa, però questo non ha impedito alla mia amministrazione di consentirmi di lavorare in Paesi che non erano considerati necessariamente “adatti” per le donne. Dunque, anche l’amministrazione da questo punto di vista è stata di supporto e questo ha contribuito a una formazione il più completa possibile per me. Spero di continuare a servire il mio Paese al meglio, a rappresentare l’Italia al meglio delle mie possibilità in Australia e in futuro anche, forse, da qualche altra parte. Si vedrà”.