Egitto: la restaurazione compiuta
La parabola della restaurazione egiziana arrivata pienamente a compimento in tempi rapidi ha messo una patina di grigiore sulla rivoluzione di piazza Tahrir. Prima la travagliata transizione che ha traghettato il Paese nelle mani del primo presidente islamista – e civile – della storia repubblicana, Mohamed Morsi. Poi il colpo di Stato – con il sostegno popolare – che nell’estate del 2013 ha posto fine a quel primordiale e complesso esperimento democratico che faticava a decollare.
Di quell’estate resta soprattutto l’immagine di quanto accaduto a piazza Rabaa al Adawya, ribattezzata la Tienanmen egiziana, dove le forze dell’ordine sbaraccarono il sit-in degli islamisti che – ritenendo Morsi l’unico presidente legittimo – chiedevano che tornasse al suo posto.
Dal massacro di quel giorno, in Egitto la macchina della repressione ha preso di mira quelli che due anni e mezzo prima erano stati descritti come gli eroici protagonisti di piazza Tahrir.
Da eroi a terroristi
La Fratellanza Musulmana è stata costretta a tornare alla clandestinità: i vertici sono finiti in carcere – dove peraltro Morsi è morto proprio tre mesi dopo che a Hosni Mubarak era stata concessa la libertà – mentre chi è riuscito ha cercato riparo scappando soprattutto in Turchia e Qatar, dove ancora oggi questa parte dell’opposizione resta attiva.
Sorte simile, anche se meno violenta, è toccata ai tanti attivisti laici, liberali e di sinistra che attraverso la creazione di sindacati, giornali, organizzazioni non governative e culturali hanno cercato con fatica di dare spessore alla società civile. Un processo necessario per il percorso democratico, ma difficile da portare a compimento in Egitto, visti i processi, le leggi (da quella sui crimini cibernetici – con la quale si controllano i social – a quella sulla stampa) che negli anni hanno progressivamente ristretto gli spazio di un’arena sempre più controllata. Lo slogan della lotta al terrorismo – sostenuto a livello internazionale – è stato in questo funzionale per accusare di questo reato tanti oppositori del regime.
Oltre alle leggi poi, ci sono state retate e arresti mirati, come mostra quanto accaduto recentemente all’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l’ong con la quale collaborava Patrick Zaki, i cui dirigenti sono stati arrestati dopo un incontro con una dozzina di ambasciatori europei.
Militari piglia-tutto
Tutto questo è stato possibile visto l’ampio mandato che i militari si sono dati. La divisione dei poteri enunciata dalla Costituzione – peraltro emendata per concedere al presidente Fatteh Abdal al Sisi di andare oltre i due mandati presidenziali – è puramente formale. Nelle mani dei militari si concentra un potere esecutivo che è tornato a dominare sulla magistratura e sul legislativo.
Formatosi con elezioni sempre più simili a quelle dell’epoca mubarakiana, il Parlamento si limita nei fatti a vidimare le scelte dell’esecutivo. Inoltre, nonostante la mancanza di dati precisi e trasparenti, è evidente che negli ultimi anni l’esercito ha ampliato la sua attività, portando celebri analisti a descriverlo come il vero e proprietario del Paese: un attore autonomo che modella il mercato interno, produce e vende beni e servizi, disegna linee di investimenti, compra quote di tv e giornali e realizza progetti infrastrutturali faraonici.
Tra questi, quello della nuova capitale che sta sorgendo a decine di chilometri da piazza Tahrir e quello delle nuove superstrade che dopo aver letteralmente attraversato la città dei morti (lo storico cimitero abitato) taglieranno in due la piana di Giza che ospita le celebri piramidi.
Per l’Italia una relazione che passa per la Libia
La progressiva erosione dello stato di diritto – accompagnata dalla crescita di sparizioni forzate – è stata al centro della revisione delle relazioni che il nostro Paese ha tenuto con l’Egitto.
Nel 2014, l’allora premier Matteo Renzi aveva scommesso su al-Sisi ed era stato il primo a stringergli la mano quando questo aveva dismesso la divisa militare per indossare gli abiti civili da presidente. La scarsa cooperazione ottenuta a seguito della tragica morte di Giulio Regeni ha nei fatti messo a nudo l’azzardo sul quale si basava questa scommessa e rallentato l’intera relazione bilaterale. Anche se da allora non si è mai più tenuto un business forum, la relazione non si è mai fermata del tutto.
L’Egitto, infatti, è ritenuto troppo importante per il ruolo che gioca nel Mediterraneo, soprattutto in Libia. Pur avendo a lungo sostenuto la fazione opposta rispetto a quella sponsorizzata dall’Italia è stato e continua ad essere un interlocutore indispensabile per portare tutte le fazioni libiche allo stesso tavolo.
A mostrarlo anche il cessate il fuoco mediato lo scorso agosto, quello che ha reso possibile il nuovo giro di valzer tentato in questi mesi dalla diplomazia internazionale per pacificare la Libia. Un percorso in cui l’Egitto vuole essere protagonista, ospitando eventualmente anche i lavori di una possibile Assemblea costituente, alla quale spetterebbe il ruolo di decidere che ruolo dare all’esercito, istituzione che da anni il Cairo vuole plasmare a sua immagine e somiglianza, in chiave anti-Islam politico.
Del resto, è stata proprio questa lotta sfrenata alla Fratellanza Musulmana, ai suoi movimenti satelliti nella regione e alla Turchia che la sostiene (in Egitto da anni è in corso un boicottaggio delle merci di Ankara) una delle principali cause della guerra fredda intra-sunnita che ha preso forma nella regione proprio dopo il golpe del 2013. Una nuova frattura, oltre a quella più tradizionale tra Islam sunnita e sciita, che ha influenzato enormemente la geopolitica mediorientale degli ultimi sette anni.
Una nuova generazione di attivisti
Nonostante la profondità del processo di restaurazione, sarebbe superficiale concludere che in Egitto si è assistito a un mero ritorno al passato. Non solo perché negli ultimi anni l’opposizione ha avuto delle brevi ma intense fiammate, ma anche perché diversi indicatori mostrano che l’esperienza rivoluzionaria ha plasmato le menti di molti giovani che nel 2011 hanno toccato con mano per la prima volta il potere dell’azione collettiva.
Nonostante l’attuale cappa securitaria, la memoria della rivoluzione è ancora viva. E se è vero che tanti rivoluzionari hanno scelto l’esilio politico, è anche vero che in Egitto sta emergendo una nuova generazione di attivisti. Il regime, infatti, si fonda sugli stessi principi di quelli che nel 2011 ne hanno messo a nudo la fragilità e l’instabilità: governa escludendo importanti fette della società. Anche se è molto difficile misurare il potenziale dell’opposizione – peraltro ancora divisa e polarizzata – nulla esclude un nuovo capitolo rivoluzionario.
Ad oggi, però, il risultato più plausibile di un eventuale sollevamento popolare sembra il mero ricambio dei vertici, magari con un militare più illuminato.