Dopo il 2011: l’età adulta delle monarchie del Golfo
In un decennio, il Golfo è diventato il perno degli equilibri mediorientali. Non più defilata oasi in un Medio Oriente tumultuoso, ma primo attore regionale: è il “Gulf moment“. Il ribaltamento dell’ordine mediorientale, già avviato con l’Iraq nel 2003, lasciava poche alternative ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau), attoniti dinnanzi alla caduta – poi assecondata dagli Stati Uniti – dei regimi alleati di Tunisia ed Egitto.
Per Riad e Abu Dhabi, reagire alla fine del vecchio mondo significava plasmarne uno nuovo, fra scelte di rottura e incognite.
Il tornante del 2011
Le rivolte popolari del 2011 hanno ridefinito gli spazi politici nell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc): non più solo i tradizionali luoghi del confronto istituzionale o informale (come la Shura consultiva e le diwaniyyat kuwaitiane), ma anche le piazze fisiche e virtuali dei social media.
I manifestanti hanno gridato karama (dignità), declinandola in richieste differenziate: riforma politica ed eguaglianza (sciiti del Bahrein e della regione orientale saudita), occupazione e inclusione sociale (Oman), lotta alla corruzione (Kuwait). In Yemen, la sollevazione si è scagliata contro il progetto di “repubblica ereditaria”: il presidente Ali Abdullah Saleh organizzava la staffetta presidenziale con il figlio, in un sistema di potere ormai insostenibile.
La strategia di contro-rivoluzione dell’Arabia Saudita ha mescolato sussidi e redistribuzione della rendita, tecniche di divide et impera, controllo sociale rafforzato e, in alcuni casi, l’inedito intervento militare diretto. Additando il complotto iraniano, i sauditi hanno prosciugato le contestazioni in Bahrein e nell’est del regno. Il religioso sciita saudita Nimr al-Nimr è stato giustiziato, la principale società politica sciita bahreinita, al-Wefaq, messa fuorilegge (2016). L’Oman ha sedato le proteste sociali nelle città del nord (Sohar), in Kuwait riaffiorarono sporadici i sit-in anti-corruzione o quelli dei bidun (arabi apolidi), riammessi nell’esercito solo dal 2018. Fuori dal Gcc, re Abdullah in Giordania ha coniugato repressione e cooptazione, drenando la contestazione nonostante gli scarsi aiuti finanziari dei vicini.
Lo Yemen è il grande fallimento dei sauditi. L’intervento di Riad ha regionalizzato un conflitto interno, figlio di una transizione politica deragliata. Oggi, i ribelli huthi sono dentro le istituzioni (seppur non riconosciute) e militarmente più temibili.
Tre partite intrecciate
Le rivolte hanno quindi costretto i governi del Gcc a misurarsi con un’insidiosa onda d’urto transnazionale. I monarchi del Golfo hanno risposto provando a territorializzare il potere, costruendo Stati-nazione con le tradizionali leve del Novecento: tasse (seppur indirette) e coscrizione militare. Un’operazione da equilibristi. Il Golfo, infatti, non si misura solo con gli assetti regionali, ma anche con la trasformazione economico-sociale “oltre gli idrocarburi” (le Visions) e le successioni al trono.
Nelle odierne monarchie post-oil, i cittadini devono pagare l’Iva (in Arabia, Eau, Bahrein; in Kuwait e Oman dal 2021) e fare il servizio militare obbligatorio (in Eau, Qatar e Kuwait), mentre il remunerativo e prestigioso impiego pubblico non è più garantito. Leader (più) giovani per anagrafe, visione e strategie di comunicazione guidano processi di modernizzazione ancora autoritari poiché “dall’alto”. L’attivismo, o meglio il contributo dei cittadini al cambiamento, è permesso solo sui temi, negli spazi e nei tempi autorizzati (vedi il saudita Mohammed bin Salman, Mbs).
Il sovrano politicamente più longevo è ora il 70enne re del Bahrein, sul trono dal 1999: dal 2013, sono cambiati quattro sovrani su sei, tra un’abdicazione e tre decessi (Qatar, Arabia Saudita, Oman, Kuwait). Insomma, al netto della pandemia da Covid-19, per Riad e dintorni sono cambiati tre mondi – regionale, economico-sociale e di potere – in appena un decennio.
Oltre il soft power: assertività militare e nation-building
Per le monarchie del Golfo, il risveglio post-2011 è stato brusco. Abituate a una florida stabilità derivante da rendita energetica e protezione statunitense, il passaggio dalla prudenza conservatrice all’intraprendenza multi-direzionale è equivalso a un rapido ingresso nell’età “adulta” della politica.
Il tradizionale soft power dei monarchi del Golfo (finanziario, religioso-culturale), è sempre necessario, ma non più sufficiente. Per incidere nei teatri di crisi, rivaleggiando con Iran e Turchia, servono ora le armi, i proxies e, a volte, i propri soldati o piloti. Più un forte senso di comunità e nazione, veicolato dall’accento nazionalista e dalla nuova “ossessione” per cultura, tradizione e identità: le radici di ieri come bussole per il domani.
Una società coesa facilita la politica estera, proiettando un’immagine globalmente riconoscibile e attrattiva. Così si può negoziare (quasi) alla pari con i partner del sistema multipolare e post-americano: Cina, India e Russia.
Soli al timone, verso nuove incognite
La “Gulfization”, ovvero la capacità del Golfo di influenzare l’area Mena (incluso il Corno d’Africa) più di quanto quest’ultima riesca a condizionarlo, è fin qui riuscita: le monarchie sono oggi esportatrici di soft e hard power. Ma sono anche politicamente più esposte e vulnerabili. La presidenza Trump ha offerto l’illusione della protezione esterna: tanti accordi militari, ma nessuna reazione quando Saudi Aramco è stata pesantemente attaccata (2019). Poi, Stati Uniti e Israele hanno di fatto consegnato le chiavi della sicurezza mediorientale ad Arabia ed Emirati (vedi l’annunciata vendita degli F-35 agli Eau).
Abu Dhabi e soprattutto Riad hanno così rielaborato l’approccio a religioni e identità confessionali: moderazione e tolleranza incentivano investimenti e turismo. L’effetto indiretto di “Vision 2030” potrebbe essere la de-settarizzazione: in un’epoca di mega-progetti e nation-building, non conviene inasprire i rapporti interni con gli sciiti. La richiesta implicita delle leadership potrebbe includere però la rinuncia alle “identità altre”: quindi centralizzazione nazionale e un ulteriore colpo al pluralismo culturale.
Due sono le dinamiche da osservare: il potenziale rigetto delle riforme da parte dei segmenti sociali più conservatori (con il rischio di un rigurgito jihadista) e l’evoluzione del rapporto con gli expatriates (i lavoratori immigrati), da ripensare nell’era post-oil.
Dieci anni dopo le rivolte che hanno cambiato il mondo arabo, l’età “adulta” della politica nel Golfo è ancora una storia dal finale aperto.
Foto di copertina EPA/Yahya Arhab