Un mondo arabo dal volto di donna tra successi e ostacoli
Il mondo arabo ritratto come il volto di una donna in uno stencil riprodotto sui muri del Cairo dal collettivo della campagna intifadat al-mara fi al-alam al-arabi (la rivolta delle donne nel mondo arabo) probabilmente è l’immagine che è meglio riuscita a descrivere il rapporto tra donne e rivoluzioni arabe. Insieme a tanti altri graffiti apparsi nel periodo 2011-2012, questa raffigurazione ben rappresenta la centralità delle donne in seno alle proteste e più in generale il loro protagonismo nella regione all’inizio del XXI secolo.
Dall’Egitto al Marocco, dalla Tunisia alla Siria, tante sono state le donne a scendere in piazza ed esporsi per chiedere pane, libertà, dignità. Diverse nei loro posizionamenti – attiviste di lunga data e semplici cittadine, laiche e religiose, giovani e adulte – esprimevano le richieste delle piazze che si erano ribellate contro regimi autoritari e corrotti.
Tra di loro c’era chi si presentava svelata come la tunisina Lina Ben Mhenni, autrice del blog A Tunisian girl, e chi scendeva in piazza indossando veli, che raccontavano di bandiere identitarie e politiche e di un ritorno della religione nella sfera pubblica del XXI secolo. È il caso dell’egiziana Samira Ibrahim, divenuta emblema della violenza di genere perpetuata nelle piazze per escludere le donne dalle proteste.
Una lunga storia di attivismo femminile
E proprio riconoscendo l’importanza dell’attivismo delle donne nelle piazze del mondo arabo il comitato del Premio Nobel per la pace assegnò alla yemenita Tawakkul Karman il riconoscimento del 2011. Tuttavia, all’alba delle rivolte e delle rivoluzioni di quell’incredibile stagione politica, molti giornalisti e anche diversi analisti apparvero sorpresi per l’alta presenza femminile nelle manifestazioni, mostrando di non conoscere la lunga storia dell’attivismo femminile e dei movimenti delle donne nel mondo arabo.
Sin dai tempi della colonizzazione europea le donne arabe sono scese in piazza, lottando per l’indipendenza e il riconoscimento dei loro diritti. Negli Stati post-coloniali hanno continuato a far sentire la loro voce contro codici della famiglia e leggi discriminanti che tutt’oggi le condannano a un ruolo secondario nella famiglia e nella società. Malgrado la repressione che non le risparmiava in virtù del loro genere, hanno combattuto su più fronti, contro governi autoritari, diseguaglianze formali imposte per legge, persistenza di una mentalità patriarcale e violenza, agita in famiglia, nella società e anche da parte dello stato. L’arma della violenza di genere è stata spesso usata dai regimi per escludere le donne dalla partecipazione politica.
È accaduto anche durante i sollevamenti del 2010-2011 in cui, in diversi Paesi, è stata ripetutamente reiterata o anche solo minacciata per relegare le donne a casa. In Siria è stata usata sistematicamente nelle carceri del regime, con ripercussioni terribili sulle vittime. La violenza sessuale rappresenta infatti una violenza doppia per chi la subisce, in quanto la persona che ne è oggetto è esposta anche all’onta dello stigma sociale in società che non solo considerano legali o accettabili solo i rapporti sessuali all’interno del vincolo matrimoniale, ma che continuano a colpevolizzare le donne anche se sono vittime.
Tempo di riforme
Un sistema perverso di colpevolizzazione che però le donne sempre più stanno denunciando e mettendo in crisi. È il caso ad esempio del movimento Ena zeda (Me too) sviluppatosi in Tunisia, tra il 2019 e il 2020. Partito dalla denuncia di molestie di una studentessa si è ben presto esteso a tutto il Paese, facendo emergere storie di violenza sommersa e nascosta.
È proprio attorno al tema della violenza verso le donne – nelle sue diverse declinazioni – che nel decennio 2010-2020 c’è stata un’importante ondata di riforme legislative. È il caso delle leggi contro i cosiddetti “matrimoni riparatori” – i quali permettono a uno stupratore di non andare in carcere se sposa la vittima – che sono state approvate in Marocco nel 2014 e in Giordania, Libano e Tunisia nel 2017. In quest’ultimo Paese la riforma è contenuta all’interno di una legge organica contro la violenza verso le donne estremamente all’avanguardia per la regione, in quanto contempla non solo le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche, economiche e politiche, e prevede l’attuazione di misure di prevenzione e assistenza alle donne. Si tratta di importanti passi avanti, tuttavia la loro ricaduta sulle dinamiche sociali non è immediata.
Il percorso verso l’uguaglianza formale e sostanziale si presenta lungo e diverso da Paese a Paese, con difformità anche all’interno di uno stesso Stato. Emergono importanti discrepanze se si tengono in considerazione differenze di contesto come rurale/urbano, centro/periferia, classi alti/classi basse e i livelli di istruzione, e ancor di più se si fa riferimento a situazione di guerra e/o di permanenza in campi profughi.
In contesti come quelli della Libia, della Siria, e dello Yemen, ad esempio, le donne conoscono gravi limitazioni nei loro diritti. Esposte a nuove forme di violenza (incluso il rischio di matrimoni forzati con uomini più grandi per far fronte ai fabbisogni delle famiglie di origine), impoverite, private dell’istruzione, costrette in diversi casi a divenire capofamiglia senza avere gli strumenti per farlo e il riconoscimento della società, si ritrovano spesso in condizione di gravi difficoltà.
Da simboli a cittadine
Al di là delle specificità nazionali, in tutti i contesti, seppur a livelli diversi, una delle principali sfide che le donne devono affrontare continua ad essere quella dell’autonomia economica. Seppur sempre più istruite e con accresciute capacità professionali, continuano ad incontrare ostacoli per accedere al mondo del lavoro.
Di fronte a difficoltà e ostacoli, e successi più o meno significativi, le donne del mondo arabo continuano a lottare con coraggio e determinazione. Anche quella che è stata definita la seconda ondata delle “Primavere arabe”, che ha interessato in particolare paesi quali Algeria, Sudan, Iraq e Libano, tra il 2019 e il 2020, ha visto un grande protagonismo femminile, e il conseguente uso (o minaccia dell’uso) della violenza sessuale come arma per dissuadere le donne dal partecipare ai movimenti di piazza. Nelle grandi manifestazioni di questo periodo le donne sono diventate indiscusse icone delle proteste. Si pensi in particolare alla sudanese Alaa Salah, figura simbolo dell’opposizione a Omar al-Bashir.
Ma essere un’icona non basta. Oggi la sfida più grande per le donne del mondo arabo è quella di riuscire a passare da simboli a cittadine di Stati democratici in cui sono considerate detentrici di pieni diritti.