Tunisia: la transizione tra tante luci e qualche ombra pesante
A guardare all’evoluzione delle rivolte che si dispiegarono nel mondo arabo nel 2010-2011, il quadro è alquanto deprimente – in particolar modo se visto rispetto alle speranze e le narrazioni di quei giorni –. Basti vedere lo stato in cui versano la Libia e la Siria oggi, oppure all’autoritarismo di ritorno in Egitto.
Basterebbe questo dato regionale, da solo, per considerare l’esperienza tunisina un successo. Ma quanto accaduto con la transizione e il consolidamento della democrazia tunisina può considerarsi un successo anche se visto rispetto al percorso storico del Paese. Inoltre, questo percorso politico è avvenuto in una regione destabilizzata, e le cui onde di instabilità hanno colpito la Tunisia al cuore: il Paese è riuscito a salvare la propria transizione nonostante il peso del terrorismo, che lo ha colpito al cuore nel 2015 e si è poi palesato in forme meno sofisticate ma non per questo meno pesanti, come dimostrato dalla tensione emotiva del 27 giugno 2019, quando una serie di attentati colpirono Tunisi mentre voci incontrollate davano il Presidente Beji Caid Essebsi morto.
Queste notizie erano false, e molti tunisini, nei giorni successivi, si chiesero chi avesse avuto interesse ad annunciare un qualcosa del genere in un giorno come quello. Che il presidente non stesse bene, però, data anche la sua veneranda età di 92 anni, non era un mistero. Quasi un mese dopo, il 25 luglio, il presidente Essebsi morirà.
La capacità di tutto il sistema tunisino di gestire in maniera ordinata una situazione oggettivamente difficile ha fatto passare in secondo piano l’eccezionalità di tale passaggio: in un contesto di transizione democratica aggravata da una crisi economica strutturale e con il terrorismo ancora capace di far male, gestire un momento così difficile non è stato banale. Insieme alla grande prova di maturità democratica e organizzativa rappresentata dalle elezioni presidenziali e parlamentari dell’autunno 2019, ciò dimostra come la Tunisia, più che ancora in transizione, sta consolidando la propria democrazia.
Verso un modello consociativo
L’indiscutibile capacità del popolo tunisino di non tradire le premesse delle proteste che da una delle periferie economico-politiche del Paese, Sidi Bouzid, si è trasformata in onda propriamente nazionale, causando in poco meno di un mese (17 dicembre – 14 gennaio) la fine della dittatura benalista, e la sua maturità politica non devono però far distogliere lo sguardo dalle ombre che hanno accompagnato la transizione.
La democrazia tunisina in questi anni si è evoluta verso un modello consociativo che se da un lato ha permesso una gestione efficace delle tante, spesso strutturali, fratture interne che, ai tempi dell’assemblea costituente e le elezioni del 2014 rischiarono di far deragliare la transizione, dall’altro ha però causato una progressiva sclerotizzazione del sistema politico, che ha fatto entrare il Paese in una sorta di palude decisionale. Si evitano cambiamenti traumatici; ogni partito e gruppo di interesse difende le proprie parrocchie invece di guardare al quadro complessivo; la retorica di cambiamento radicale che tutti si affannano a recitare durante le campagne elettorali si acquieta nel momento in cui si mette piede al Bardo o alla Kasbah.
Populismo cumulativo
Tale dinamica consociativa sta anche alimentando quello che potrebbe essere definito una sorta di populismo cumulativo: molti elettori votano partiti e personalità che promettono purezza, coerenza e indisponibilità all’intesa, anche tattica, con i “nemici”. Ma, dal 2014, dal giorno dopo le elezioni, questi propositi belligeranti sono stati puntualmente smentiti, provocando una disillusione che alimenta l’avvento di nuovi attori sempre più radicali nelle proprie proposte politiche: il rigorismo conservatore dell’attuale presidente Kais Saied; il populismo caritatevole del suo vecchio sfidante per Cartagine, Nabil Karoui; l’ascesa di Abir Moussi, mai troppo timida nostalgica del vecchio regime; l’islamo-populismo di Seiffedine Makhlouf.
In questa palude si sono anche arenate altre questioni di grande importanza come ad esempio dimostrato dalle crescenti difficoltà che il processo di giustizia transizionale ha conosciuto, depotenziandone la portata; o le tante ambiguità, mai realmente affrontate, sul martirio di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, uccisi dalla stessa pistola a distanza di pochi mesi nel 2013.
L’economia che non decolla
In questo contesto, l’economia è certamente un’altra nota estremamente dolente: alla debolezza dei governi che si sono succeduti in questi anni, e alle difficoltà nell’implementare riforme capaci di dare una spinta sistemica alla crescita economica, si è poi aggiunto il peso dell’instabilità regionale e del terrorismo, che ha messo in ginocchio l’industria del turismo dopo il 2015. Quando la situazione sembrava pronta a migliorare, con i numeri del turismo nel 2019 estremamente positivi, la crisi globale del Covid-19 ha distrutto le speranze che si erano accumulate. Inoltre, la dicotomia costa-interno, una delle fratture centrali nel causare la rivoluzione dei Gelsomini, non è stata affrontata, come dimostrano l’esperienza di el-Kamour o le proteste costanti che vi sono nel centro e nel sud del Paese.
In conclusione: sottovalutare la portata di ciò che ha fatto la Tunisia nel corso degli ultimi dieci anni sarebbe miope e ingiusto. Che tante questioni possano, e vadano, affrontate in maniera più decisa e perentoria, è innegabile. Ma quella tunisina resta una storia di successo, in particolar modo se vista nell’ottica di una regione in cui le speranze di dieci anni fa si sono presto trasformate in incubi ancora troppo reali.
A dieci anni di distanza dal 17 dicembre 2010, quando il giovane ambulante tunisino Mohamed Bouazizi si diede fuoco – una scintilla che si diffuse rapidamente in tutto il Medio Oriente -, parte proprio dalla Tunisia il nostro viaggio alla scoperta di cos’è rimasto delle Primavere arabe.