Ripresa post-Covid: perché l’Unione bancaria europea è una sfida centrale
Il Vertice euro dell’11 dicembre ha invitato l’Eurogruppo “a elaborare un piano di lavoro con scadenze definite su tutti gli elementi in sospeso per completare l’Unione bancaria”. In novembre, la Banca centrale europea (Bce) aveva sottolineato che il completamento dell’“assetto dell’Unione bancaria” è necessario per garantire la stabilità finanziaria “anche a fronte delle conseguenze macro-finanziarie della crisi Covid-19”. L’Unione bancaria europea (Ube) fu lanciata nel 2012 dopo la crisi dell’eurozona che rischiò di dissolvere la moneta comune. La crisi aveva segmentato l’Eurozona lungo i confini nazionali perché il rischio specifico di ogni Paese influenzava la fiducia con cui la liquidità vi affluiva. Le banche dei Paesi percepiti come più rischiosi avevano difficoltà a raccogliere fondi all’estero, gli stimoli della politica monetaria della Bce non si diffondevano in modo omogeneo, i tassi di interesse erano diversi nei diversi Paesi membri. L’Italia era fra i Paesi più penalizzati dalla segmentazione, con tassi più alti e liquidità e credito più scarsi.
Le valutazioni del rischio-Paese dei mercati guardavano alle differenze fra le regole finanziarie, alla qualità della vigilanza sulle banche, alla loro capitalizzazione, redditività e modelli di business, alle condizioni della finanza pubblica e al suo rapporto con il sistema bancario. Molta importanza aveva l’incidenza dei titoli di Stato sull’attivo delle banche perché da essa deriva un possibile circolo vizioso fra le difficoltà della finanza pubblica e quelle del sistema bancario: quando questo è in difficoltà il debito pubblico cresce per gli aiuti salvabanche del governo mentre cadute nel valore dei titoli di Stato compromettono i bilanci bancari.
Superare la segmentazione
Si decise di procedere in tre direzioni: intensificare l’armonizzazione delle regole bancarie, centralizzare la vigilanza, uniformare e in parte centralizzare la gestione della crisi di una banca e l’assicurazione dei depositi. Con normative e trattamenti uguali per le banche di ogni Paese, l’eurozona avrebbe superato la segmentazione. L’armonizzazione delle regole era in corso da tempo e venne accelerata. Conducendo rapidamente un’operazione di grande complessità, in due anni la vigilanza fu accentrata presso la Bce che raddoppiò la dimensione e innovò i criteri della supervisione.
I passi furono invece più lenti e controversi sul fronte della gestione delle crisi. Venne creato il Meccanismo di risoluzione unico (Mru) che, con criteri dettati da una direttiva comunitaria, deve prendere in carico le banche fallite o prossime al fallimento per “risolverle”, cioè ristrutturarle, fonderle con altre banche sane o chiuderle. Per minimizzare le conseguenze negative della “risoluzione” sulla clientela attiva e passiva delle banche in crisi e scongiurare che questa contagi altre banche, il Mru deve disporre di fondi da iniettare temporaneamente nella crisi e recuperare quando essa è risolta. È stato perciò istituito un Fondo di risoluzione comune (Frc) alimentato gradualmente dalle stesse banche in una logica assicurativa che lo confina però per diversi anni a una dimensione inadeguata. Inoltre, per mancanza di accordo politico, la costituzione del fondo europeo per l’assicurazione dei depositi, in grado di supportare i corrispondenti fondi nazionali nel rimborsare i depositi inferiori ai 100 mila euro in caso di fallimento di una banca, non è ancora iniziata.
Infine, l’affidamento di banche in difficoltà alla “risoluzione” del Mru incontra ostacoli da parte dei governi nazionali che cercano di gestire le crisi riflettendo interessi particolari. È augurabile che il sopracitato invito del Vertice euro ad affrontare “tutti gli elementi in sospeso” dell’Unione bancaria trovi rapido ascolto e già nel giugno 2021 si veda qualche risultato concreto almeno sul fronte dell’assicurazione dei depositi che però sembra richiedere un difficile accordo sul trattamento dei titoli di Stato nell’attivo delle banche.
Il Meccanismo europeo di stabilità
Per rafforzare l’Ube sul fronte della gestione delle crisi si è pensato di usare il Meccanismo europeo di stabilità (il Mes), il “fondo salva-Stati” col quale si sono superate le crisi di solvibilità di interi Paesi (come l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, la Grecia e Cipro) e dei loro debiti sovrani. Si è progettato che il Mes, grande e capace di finanziarsi sia presso i governi che sui mercati internazionali, garantisca gli impegni temporanei del Frc che interviene direttamente nelle crisi di singole banche ma che ha una dimensione molto inferiore. Inoltre, la dimensione e la missione del Mes, che prevede anche la ricapitalizzazione diretta delle banche, lo mettono in grado di assumere direttamente la gestione della crisi se si rivela comune ad altre banche, cioè “sistemica” o lo diventa per inadeguata prevenzione dei contagi.
L’utilizzo come backstop del Frc è forse la principale innovazione della riforma del Mes che il veto dell’Italia ha tenuto in sospeso dall’anno scorso ma su cui l’Eurogruppo del 30 novembre ha finalmente raggiunto l’accordo che comprende “la tempestiva introduzione del sostegno al Frc”. La dichiarazione del Vertice euro osserva che “si tratta di un importante passo avanti che getta le basi per un ulteriore rafforzamento dell’Unione bancaria”.
Le fragilità dei sistemi bancari nazionali
La pandemia ha aumentato i rischi dei sistemi bancari nazionali e ne ha fatto riemergere differenze e fragilità specifiche che possono tornare a segmentare l’Eurozona mettendo in difficoltà la politica monetaria comune fino a risuscitare lo spettro della dissoluzione della moneta unica. Uno dei rischi che sta risalendo è il circolo vizioso fra illiquidità o insolvenza delle banche e debito pubblico di un Paese. L’enorme aumento dell’indebitamento dovuto agli interventi anti-Covid ha accresciuto in tutti i Paesi dell’Eurozona l’ammontare di titoli di Stato posseduti dalle banche. L’Italia è il Paese dove il fenomeno è più accentuato: le banche detengono la quota maggiore (più di un quarto) del debito pubblico e a fine settembre i titoli di Stato nazionali hanno raggiunto il 12% delle attività delle banche mentre la Bce prevede che supereranno il 17% alla fine del 2022.
Ma la pandemia ha alimentato anche altre fragilità delle banche: ha ridotto la loro redditività, peggiorato il rating dei loro debiti, compresso il grado di capitalizzazione, depresso i loro valori di borsa più delle medie dei listini, aumentato l’incertezza macroeconomica. Tutti rischi acuiti in modo particolare nel sistema bancario italiano, dove accanto a banche solide abbondano istituti fragili. Le simulazioni della Bce in uno scenario definito pessimista, ma che si limita a prevedere un tasso di crescita negativo dell’Eurozona nel 2021 e appena positivo nel 2022, danno risultati preoccupanti per l’Eurozona dove nuove difficoltà di imprese e famiglie aggraverebbero l’incaglio dei prestiti delle banche peggiorando la loro liquidità e solvibilità. Potrebbe anche verificarsi una violenta carenza di credito.
Poiché i rischi sono tutt’altro che uniformi e decisamente più gravi nei Paesi più deboli, fra cui l’Italia, la segmentazione del mercato finanziario europeo e della circolazione della liquidità potrebbe ripresentarsi con impeto. Oltre all’Unione bancaria andrebbe accelerata la realizzazione dell’Unione europea dei mercati dei capitali, dove si emettono e trattano titoli azionari e obbligazionari, favorendo l’integrazione della finanza non bancaria, altro canale che può evitare che un Paese, come successe all’Italia nel 2011-12, rimanga escluso dai flussi di moneta e credito e dagli stimoli della politica monetaria comune.
Il Vertice dell’11 dicembre ha chiesto “rapidi progressi sul piano d’azione della Commissione” da tempo impegnata sul fronte dell’Unione dei mercati dei capitali. Si tratta di un fronte complesso perché i connotati del mercato dei capitali, più di quelli del sistema bancario, sono molto diversificati nei vari Paesi membri e legati a leggi e istituzioni, come alcuni aspetti del diritto societario, difficili da armonizzare. È dunque “essenziale portare avanti rapidamente i lavori sugli elementi a breve termine” mentre si individuano “gli ostacoli che impediscono di compiere progressi nei settori strutturali più complessi proposti nel piano d’azione”.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.