Non solo giovani: in Medio Oriente la mobilitazione continua
La regione araba è stata interessata da significativi fenomeni di rinnovata mobilitazione politica perlomeno dalla decade che precede lo scoppio della cosiddetta stagione delle Primavere arabe. Le proteste sono poi continuate in diverse forme e nei diversi contesti nazionali anche nel post-2011, nonostante ad esempio l’instaurazione di una democrazia procedurale in Tunisia, la restaurazione autoritaria in Egitto, i tentativi di cooptazione in Marocco, lo sfavorevole contesto internazionale e, soprattutto, la crescente violenza politica che ha interessato più o meno intensamente tutta la regione.
Siamo oggi nel pieno di quella che è stata definita la “seconda ondata” che ha coinvolto dalla fine del 2018 l’Algeria, il Sudan, il Libano e l’Iraq. La primavera del 2010-2011 va dunque inserita in un continuum che parte appunto dai primi anni del nuovo millennio e che è tuttora in corso.
Il nesso fra politica ed economia
Al di là delle pur notevoli differenze nazionali, le proteste arabe degli ultimi due decenni hanno molti tratti in comune e, anzi, si ricollegano per temi e modalità a fenomeni simili in altre regioni del mondo.
C’è una sostanziale unanimità sul fatto che i fattori scatenanti delle proteste siano, nel mondo arabo come altrove, le gravi diseguaglianze sociali e la perdita di legittimità di regimi incapaci di esercitare una presa sulla società se non con la coercizione.
Le proteste hanno anche confermato l’interconnessione fra la sfera politica e quella economica, contrastando il pensiero mainstream che ancora considera il libero mercato come una panacea e i problemi della regione come esclusivamente il prodotto di autoritarismo e corruzione. Guardando alla storia recente del Medio Oriente possiamo affermare che non c’è contraddizione alcuna fra neo-liberismo economico e autoritarismo politico. Al contrario, l’apertura dei mercati mediorientali e l’accelerazione liberista è stata consentita (e lo è tuttora) proprio dalla ferrea stretta di regimi autoritari. Questa connessione non è oggi un’anomalia a livello mondiale al punto che la tanto discussa eccezionalità dell’autoritarismo mediorientale è diventata anacronistica.
Non è dunque sufficiente indire nuove elezioni o avviare campagne di lotta alla corruzione nei singoli contesti nazionali, senza contemporaneamente affrontare il nodo del potere socio-economico che, peraltro, è per sua natura transnazionale. Le continue proteste in Tunisia, tanto decantata come unico caso di successo delle Primavera arabe, ne sono un buon esempio.
L’attivismo giovanile
Si è molto parlato dell’attivismo giovanile in relazione alle Primavere arabe, ma la categoria “giovane”, differenziata al suo interno e per sua natura transitoria, poco ci dice sulle forze sociali dietro le proteste delle ultime due decadi, al di là del dato demografico di una popolazione in buona parte sotto i trent’anni.
La storia ci insegna tuttavia che i “giovani” tornano spesso nel discorso politico in situazioni di crisi dei meccanismi di riproduzione sociale per cui una generazione, definita in senso ampio, si trova ad affrontare una realtà radicalmente diversa dalla precedente.
I “giovani” sono, ad esempio, i nuovi entranti in un mercato del lavoro radicalmente mutato rispetto al passato in cui disoccupazione e precarietà sono la norma e non l’eccezione. Il focus sui giovani, però, non deve nascondere l’ampiezza della crisi e della relativa mobilitazione che in molti casi ha coinvolto, e coinvolge tuttora, ampie fasce sociali che comprendono le classi lavoratrici precarizzate, i disoccupati e le classi medie istruite urbane.
La maturazione dei movimenti di protesta
Dal 2011 in poi, le rivendicazioni dei manifestanti, per quanto rivoluzionarie nel loro categorico rigetto dello status quo, non sono state ancora formulate in modo organico, ossia non hanno prodotto un’alternativa viabile e condivisa. Questo però non vuol dire che le rivolte siano “spontanee” – come pure chi scrive ha sostenuto in passato -, se non nel senso che non sono controllate da alcun attore politico strutturato. Bensì, esse sono il prodotto di lunghe esperienze di lotta che spesso non ottengono l’attenzione mediatica e, comunque, il frutto di una paziente e perigliosa preparazione da parte di intellettuali e attivisti alienati dal sistema.
È possibile oggi individuare un processo di maturazione dei movimenti di protesta. I protagonisti delle rivolte del 2018-2020, ad esempio, sono più consapevoli dei rischi associati ad una alleanza con l’esercito, del pericolo di trasformazione della rivolta in guerra civile internazionalizzata, o dell’effetto divisivo del confessionalismo. Gli attivisti condividono anche esperienze pratiche di resistenza, ad esempio su come affrontare la violenza della polizia, dell’esercito o delle milizie, come organizzare il supporto medico, legale e mediatico ai manifestanti o come occupare in modo efficace lo spazio pubblico.
Così come avvenuto nel 2011, molti analisti continuano a rimanere sorpresi ad ogni scoppio di rivolta di massa nella regione, ma – rimanendo invariata e anzi aggravandosi la crisi socio-economica e politica – possiamo ragionevolmente aspettarci nel futuro prossimo nuove e intense manifestazioni di scontento popolare.
Le rivolte vanno dunque considerate in una cornice più ampia sia dal punto di vista temporale che geografico, al di là degli apparenti successi o fallimenti nei singoli casi nazionali.