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Osservatorio IAI/ISPI

Il Mes, la sua riforma e il dibattito italiano

14 Dic 2020 - Antonio Villafranca, Carlo Mongini - Antonio Villafranca, Carlo Mongini

Da più di un anno, il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) è più o meno presente nel dibattito politico italiano. Prima, il tema principale era la riforma del Mes, su cui l’Italia aveva posto il proprio veto nelle riunioni dell’Eurogruppo. Il 30 novembre scorso, tuttavia, il veto è stato ritirato permettendo che il testo della riforma venisse approvato dai ministri delle Finanze dell’Eurozona. Il 9 dicembre la proposta è stata approvata anche dal nostro Parlamento. Poi, il dibattito si è concentrato sul cosiddetto ‘Mes sanitario’, uno strumento proposto dall’Eurogruppo lo scorso aprile per far fronte alla crisi pandemica. In entrambi i casi, è necessario fare chiarezza sul perché di così tante divisioni nel dibattito italiano.

La riforma del Mes
La ratifica della decisione dell’Eurogruppo da parte del Parlamento italiano ha aperto le porte alla riforma del Mes. Tuttavia, il dibattito politico sulla bontà della proposta è rimasto vivo. Per cercare di far chiarezza è bene ricordate che i punti principali della riforma sono tre. Il primo comprende il nuovo ruolo che ricoprirà il Mes nel sistema bancario europeo. È ancora in fase di creazione il Fondo di risoluzione comune delle banche, uno strumento che ‘salverà’ gli istituti bancari europei di interesse per l’Ue e sarà costituito dai contributi delle banche dei Paesi membri. Con la riforma, il Mes fornirà il backstop del Fondo di risoluzione comune, cioè ne sarà il garante. Secondo le conclusioni dell’ultimo summit dell’Eurogruppo, il meccanismo di backstop dovrà essere attivato entro l’inizio del 2022.

Il secondo punto riguarda invece l’inasprimento delle condizioni per accedere ai prestiti del Mes. Il Trattato originale, risalente al 2012, delineava due linee di credito, le Precautionary Conditioned Credit Lines (Pccl) e le Enhanced Conditions Credit Lines (Eccl). Le prime dirette ai Paesi in difficoltà ma con debiti più sostenibili, le seconde per le economie più fragili. Ai prestiti del Mes sono legate condizionalità, cioè misure che i governi devono attuare riguardo alle finanze pubbliche, e riforme strutturali. Quelle legate alle Pccl erano meno stringenti rispetto a quelle delle Eccl. Tuttavia, la riforma del Mes pone condizioni più severe per l’accesso alle Pccl, quindi alle linee di credito per i Paesi potenzialmente in difficoltà.

Infine, il terzo punto sulle procedure da seguire previo ‘salvataggio’ da parte del Mes dei Paesi a rischio default. Con il nuovo Trattato, il Mes e la Commissione europea procederanno a un’analisi della sostenibilità del debito del Paese che chiede aiuto. Qualora il Paese non fosse considerato in grado di ripagare il debito con il Mes, esso dovrà procedere a una ristrutturazione del debito pubblico, ossia a una decurtazione dei valori dei titoli di Stato, con una procedura accelerata e semplificata rispetto all’attuale Trattato.

Se il Paese non accetterà la ristrutturazione o, peggio, se nonostante questa il debito non verrà comunque considerato sostenibile, il Mes non interverrà (ovvero non concederà i propri prestiti). Da notare che sono state accantonate le richieste di alcuni Paesi del Nord Europa che invece premevano per una ‘ristrutturazione’ automatica del debito, ovvero qualora certe condizioni si presentassero. I grandi speculatori dei mercati internazionali avrebbe potuto fare proprio in modo che queste si manifestassero, ed è quindi un bene che l’automatismo sia stato eliminato.

Il ‘Mes sanitario’
Lo scorso aprile, l’Eurogruppo ha riproposto l’utilizzo del Mes per i Paesi maggiormente colpiti dalle conseguenze del nuovo coronavirus. L’iniziativa venne criticata da molti Paesi membri, in primis l’Italia. Ma i ministri delle Finanze decisero di sottoporre parte del Mes (240 miliardi di euro) a una modifica temporanea per renderlo più adatto alla situazione economica post Covid-19. Ogni Paese può richiedere un ammontare pari al massimo al 2% del suo Pil – per l’Italia, quindi, circa 36 miliardi di euro – in prestiti a tassi molto bassi e a lunga scadenza. Per scongiurare la diffidenza verso le tradizionali condizionalità sulle linee di credito del Mes, l’Eurogruppo ha temporaneamente posto come unico vincolo l’utilizzo dei fondi per spese sanitarie dirette e indirette.

Nonostante l’attrattività delle condizioni, nessun Paese membro ha finora fatto ricorso al Mes per due motivi. Lo scorso luglio è stato disegnato il progetto di Next Generation EU, i 750 miliardi per finanziare la ripresa approvati definitivamente nell’ultimo Consiglio europeo del 10-11 dicembre. Dal prossimo anno, i Paesi membri potranno contare su altri fondi europei rispetto al Mes, buona parte dei quali a fondo perduto (anche se è bene ricordare che Next Generation EU prevede comunque una condizionalità legata alle riforme da attuare e alla tipologia delle spese).

Il secondo motivo è che i tassi di interesse odierni sui titoli di Stato sono bassi, per cui il risparmio sui prestiti del Mes, a tassi agevolati, è limitato (anche se nell’ordine di alcune centinaia di milioni di euro per l’Italia).

Mes sì o Mes no?
Il governo italiano ha approvato la riforma del Mes ma conferma la propria volontà di non richiedere i prestiti per finalità legate alla sanità. Con il sostegno al Next Generation EU e alla riforma del Meccanismo, l’Italia permette di compiere un ulteriore passo verso l’Unione bancaria. Un passo che fa bene anche al nostro Paese; ma l’Italia deve insistere perché anche i restanti passi si compiano.

Riguardo al giudizio complessivo da dare sul Mes, va ricordato che se i mercati giudicassero il debito del nostro Paese non sostenibile, essi ci costringerebbero comunque a una sua ristrutturazione, che però non sarebbe ordinata (come nel caso del Mes) e non potrebbe contare appunto sui prestiti del Mes stesso.

Se il Mes può presentare criticità, la sua assenza sarebbe dunque peggio. Il vero problema per l’Italia non è tanto il Mes quanto piuttosto il nostro debito pubblico che dopo la pandemia si appresta a toccare un vertiginoso 160% del Pil.

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.