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Il gioco delle parti

I primi 25 anni della Bosnia-Erzegovina nata a Dayton

15 Dic 2020 - Dario D'Urso  - Dario D'Urso 

È passato un quarto di secolo dalla firma degli accordi di pace siglati nella base aerea statunitense di Dayton, Ohio, il 20 novembre 1995 e solennemente sottoscritti all’Eliseo il 14 dicembre successivo. Unico caso di accordo di pace che contenesse tra i suoi allegati la Costituzione del Paese che intendeva riconciliare, Dayton è entrata nell’immaginario collettivo come lo strumento che ha consentito la fine della carneficina che ha insanguinato la Bosnia-Erzegovina dal 1992 al 1993, senza però riuscire a vincere la pace, non garantendo né funzionalità al Paese, né riconciliazione tra i tre gruppi etnici e i loro rappresentanti politici.

Dayton, in un certo senso, è da allora divenuta sinonimo di tutti i mali che, a 25 anni dalla fine della guerra, ancora affliggono la Bosnia-Erzegovina. Allo stesso modo, ogni sua possibile riforma o superamento vengono invocati come panacee.

Sicuramente, il sistema istituzionale creato a Dayton (basato in parte sull’accordo raggiunto nel 1994 a Washington tra bosgnacchi e croati) ha messo in piedi un apparato ultra-federale spropositato per un Paese di poco più di tre milioni di abitanti, basato su un governo centrale dagli scarsi poteri, concentrati invece nelle mani delle due entità costitutive del Paese – la Federazione di Bosnia-Erzegovina, a maggioranza bosgnacca e croata, e a sua volta divisa in 10 cantoni in larga parte monoetnici, e la Republika Srpska, dalla struttura più centralizzata e a stragrande maggioranza serba (a cui si aggiunge il Distretto di Brcko, sotto diretta autorità centrale).

Un’intesa che sancì i risultati della guerra
Dayton ha, nei fatti, sancito i risultati della guerra, cristallizzando la segregazione etnica provocata dalle stragi e dagli spostamenti di popolazione (sono ormai poche le aree del Paese realmente miste, nonostante il diritto al ritorno dei rifugiati e degli sfollati sancito nell’allegato 7 degli accordi) e condannando la governance della Bosnia-Erzegovina ad un costante consociativismo tra i principali partiti di ogni constituency etnica.

E risiede forse in questo il suo peccato originale: aver di fatto consegnato la Bosnia-Erzegovina nelle stesse mani dei partiti etno-nazionalisti che avevano combattuto la guerra e che hanno poi continuato ad applicare logiche da economia di rapina e una visione patrimoniale della cosa pubblica aizzando il terrore dell’altro nei propri elettorati di riferimento per mantenersi al potere. Così, più che di uno Stato post-conflitto, sarebbe meglio parlare di Bosnia-Erzegovina come uno degli esempi più lampanti di State capture nei Balcani.

Va da sé che ogni sforzo di riforma, specie in chiave di avanzamento dello stato di diritto, appaia destinato ad una difficilissima attuazione, dato che ognuna di esse costituirebbe un attacco al potere e al controllo esercitato dal bosgnacco Sda, dal serbo Snsd (sostituitosi all’Sds come partito di riferimento) e dal croato Hdz BiH su vari pezzi delle istituzioni, delle aziende statali e della magistratura bosniaca.

Il ruolo della comunità internazionale
Nell’arrivare a questo scenario, non è stato del tutto estraneo il ruolo della comunità internazionale: più che necessario dopo la firma di Dayton, e sancito dagli stessi accordi nella figura dell’Alto Rappresentante, poi dotato dal 1997 di ampi poteri esecutivi diretti, esso si è in qualche modo strutturato nel contesto bosniaco, alimentando logiche di de-responsabilizzazione di élite politiche ben felici di non accollarsi il peso politico di scelte impopolari o pronte a scaricare sugli “stranieri” le responsabilità dei loro stessi fallimenti.

Oggi, alcuni osservatori vedono nel rafforzamento dell’Alto Rappresentante – che non usa i suoi poteri esecutivi, i cosiddetti Bonn Powers, dal 2011 – una via di uscita alle varie impasse in cui cade ripetutamente la Bosnia-Erzegovina e un modo per punire la retorica secessionista spesso ventilata dall’uomo forte dei serbo-bosniaci (e attuale membro della presidenza tripartita) Milorad Dodik. In realtà, un nuovo interventismo internazionale (magari di matrice statunitense) non farebbe altro che alimentare, in un’ottica di azione-reazione, la logica di facciata della perenne tensione interetnica, sempre ad un passo dallo sfociare in qualcosa di più grave, facendo il gioco di quelle élite etno-nazionaliste che possono così consolidare il loro sistema di patronage.

Le critiche a Dayton, spesso, si fermano a questo: confondono il contenuto con il contenitore, dando la colpa a quest’ultimo per lo stallo semi-perenne in cui versa la Bosnia-Erzegovina. È abbastanza pacifico affermare che l’assetto di Dayton, con la sua autorità diffusa su vari livelli istituzionali e scarse occasioni di reale coordinamento, non favorisca il decision-making o l’emergere di un consenso tra le parti; ma è altrettanto onesto dichiarare come esso non lo osti completamente, qualora vi sia la volontà politica di arrivare ad un qualche tipo di accordo.

Smascherare il gioco delle parti
Per far sì che i prossimi 25 anni della Bosnia-Erzegovina nata a Dayton siano diversi da quelli appena trascorsi, è necessario un salto di qualità da parte di quei cittadini bosniaci che non hanno ancora scelto di emigrare e di una comunità internazionale spesso in cerca di protagonismo: smascherare il gioco delle parti imposto dagli attuali partiti di riferimento delle comunità bosgnacca, serba e croata, e con esso i decenni di State capture che esse hanno imposto sul Paese, lavorando, quindi, a favore di quelle opzioni politiche che, lentamente, iniziano a lanciare ponti tra le varie comunità concentrandosi sui danni causati alle vite dei cittadini dalla cattiva gestione della cosa pubblica e dall’influenza politica sulla giustizia.

Ad oggi, ogni desiderio di stravolgere l’assetto imposto a Dayton nel 1995 resta velleitario, perché non esiste un consenso nell’attuale classe politica volto al suo superamento; ogni richiamo della comunità internazionale al depotenziamento delle entità a favore dello Stato centrale rischia di avere l’effetto contrario, ovvero un nuovo ciclo di tensioni e immobilismo. Ma se non si può cambiare il contenitore, meglio, forse, iniziare col cambiare il contenuto.

Le opinioni espresse appartengono unicamente all’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Commissione europea o del Servizio europeo di azione esterna.