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PALAZZO DI VETRO

Bambini-soldato: il dramma della “pandemia” dell’infanzia interrotta

10 Dic 2020 - Francesco Semprini - Francesco Semprini

La prima volta è stata in Afghanistan, in pieno surge – il rafforzamento del contingente – statunitense ordinato da Barack Obama per chiudere una guerra che si stava trascinando da quasi un decennio. In un piccolo avamposto nei pressi di Pashmul, villaggio ad alta intensità taleban nel cuore della provincia di Kandahar (terra natale del mullah Omar), un plotone di specialisti della Mountain Division (gli alpini americani) cattura una cellula di insorti che stava preparando attacchi con ordigni esplosivi improvvisati (Ied).

Tra loro c’è un minore, poco più che bambino. I talebani li arruolano e li usano per trasportare la bomba, posizionarla in una buca da loro stessi scavata, e farla poi saltare in aria a comando di cellulare. “Minima spesa, massima resa”, è la logica. Il ragazzino era lì con i suoi aguzzini, visibilmente perso, tremolante, gli occhi bendati come tutti gli altri prigionieri, seduto sullo sterrato, il volto rivolto al muro. È la prassi in attesa che arrivi l’intelligence per gli interrogatori. È stata quella la prima volta che ho visto, dal vivo, un bambino soldato; da allora ho sentito costantemente sotto pelle la rabbia interiore nel pensare che quella giovanissima vittima aveva perso la sua infanzia e la sua libertà e, se non fossero arrivati i militari, probabilmente anche la vita. I suoi occhi bendati e le mani ammanettate raccontavano il volto più infame della guerra.

L’ultima volta che ho visto occhi di bambino trasformati in maschere del terrore è stata molto dopo, nel febbraio 2019, quando con una brigata curda dell’Unità di protezione popolare (Ypg) del Rojava ho seguito la battaglia di Baghuz, nella provincia di Der Azzur, appendice sud orientale della Siria, estrema sacca di resistenza dello Stato islamico. Ricordo i volti di quei giovanissimi intercettati mentre tentavano di confondersi tra i civili in fuga attraverso i corridoi umanitari: iracheni, uzbeki, ceceni, qualche occidentale, combattenti in embrione di Ashbal al-Khilafa (i leoncini del Califfato).

L’allarme Onu
Tra questi due episodi ce ne sono stati altri. In Somalia, dove i bambini vengono arruolati dagli Shabaab, storditi con alcol e qat, la droga che annienta fame e paura: “Minima spesa, massima resa”. E in Libia, la nostra dirimpettaia sul Mediterraneo: fra le aberrazioni di quel conflitto a “bassa intensità”, oltre agli attacchi delle milizie di Khalifa Haftar sui civili, c’è anche l’uso dei bambini-soldato. Da entrambe le parti. Una strategia infame che viene praticata anche dalle milizie siriane e turcomanne di cui si serve Ankara nelle sue operazioni di sostegno alle forze di Tripoli. Già nel 2018 e 2019 l’Unicef aveva denunciato l’impiego di minori da parte di stranieri legati a Tripoli per trasportare armi e rifornimenti, e in alcuni casi per essere direttamente schierati al fronte, insieme con migranti e mercenari. Ma oggi la situazione è peggiorata e secondo l’Onu negli ultimi mesi di guerra, almeno 150 minori siriani sono stati individuati in Libia.

Un bambino soldato – secondo le convenzioni internazionali – è una persona sotto i 18 anni di età, che fa parte di qualunque forza armata o gruppo armato, regolare o irregolare, a qualsiasi titolo – tra cui combattenti, cuochi, facchini, messaggeri, spie e chiunque si accompagni a tali gruppi, diversi dai membri della propria famiglia -. La definizione comprende le ragazze reclutate per fini sessuali e matrimoni forzati.

Numeri che preoccupano
Si stima che 250 mila bambini siano coinvolti in conflitti in tutto il mondo. Si tratta di un fenomeno che rientra nel più ampio tema dei minori vittime dei conflitti. Tra il 2002 e oggi oltre un miliardo di bambini hanno vissuto sulla loro pelle la guerra in 42 Paesi interessati da violenti conflitti. Secondo il rapporto 2019 su “Bambini e conflitti armati” commissionato dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, sono state verificate “almeno 25 mila violazioni gravi ai danni di minori”, numeri che non mostrano nessun miglioramento rispetto allo scorso anno: si tratta di “70 violazioni al giorno”.

Ma c’è un dato che scuote più di altri le coscienze, ovvero più di 4.400 volte alle organizzazioni umanitarie è stato negato l’accesso ai bambini interessati dai conflitti, sei volte più spesso rispetto al 2018. Tra i Paesi più interessati ci sono Yemen, Mali, Repubblica Centroafricana, Israele, Palestina e Siria. Bambini e bambine continuano ad essere vittime di violenze sessuali con almeno 735 casi accertati, ma le violazioni potrebbero essere molte di più. In totale il numero di vittime tra i minori si è attestato a poco più di 10 mila unità (nel 2018 erano state 12.014), con l’Afghanistan in testa alla classifica seguito da Siria e Yemen. Uno su quattro muore a causa di ordigni esplosivi e mine antiuomo. Sono stati 1.683 i bambini rapiti nel 2019, soprattutto in Somalia, Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Nigeria: la gran parte sono vittime di abusi sessuali o, appunto, “carne fresca da cannone”.

Un fenomeno globale
Il numero di reclutamenti, lo scorso anno, è sceso ad almeno 7 mila unità, “ma rimane ancora un fenomeno preoccupante”, spiega il rapporto. Somalia, Siria e Rdc sono i Paesi più interessati. Il fenomeno ha però radici profonde: secondo le stime Onu riportate dal sito sositalia.it, in Sierra Leone in 10 anni di guerra civile, i bambini in combattimento hanno avuto un ruolo di primo piano. In Sudan almeno 100 mila bambini combattono su entrambi i fronti di una guerra civile che dura da 20 anni: il soldato più giovane ha 9 anni. Più di recente è lo Yemen a registrare un aumento dei reclutamenti di minori che sono diventati tragica parte attiva e passiva del conflitto.

Il fenomeno è globale: secondo i dati citati da strisciarossa.it, “in Sud America, a partire dagli anni Novanta, i bambini soldato sono stati impiegati in Colombia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Messico (Chiapas), Nicaragua, Paraguay e Perù. La pratica è diffusa anche in Asia: in Myanmar si stima ci siano più di 75 mila bambini soldato, uno dei numeri più alti al mondo, presenti sia nell’esercito nazionale, sia nei gruppi etnici armati che si oppongono al regime”. Numeri da brivido, specie se si pensa che uno dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile fissati dall’Onu per il 2030 prevede che gli Stati adottino “misure immediate ed efficaci per garantire il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, compreso il reclutamento e l’uso di bambini soldato, ed entro il 2025 la fine del lavoro minorile in tutte le forme”.

Il traguardo è imprescindibile ma è ancora assai lungo il cammino per avvicinarsi: prima di debellare dal pianeta la “pandemia” dell’infanzia interrotta, quanti occhi bendati racconteranno ancora il volto più infame della guerra?