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Il veto di Polonia e Ungheria

Al Consiglio europeo va in scena una battaglia esistenziale per il futuro dell’Unione

9 Dic 2020 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Non sarà davvero una passeggiata il Consiglio europeo del 10-11 dicembre. Ma non tanto per la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), su cui si è attorcigliata la politica italiana e solo essa, quanto sui temi ben più rilevanti della Brexit, delle eventuali sanzioni contro la Turchia e, soprattutto, dell’avvio del Recovery Fund Next Generation EU. Com’è noto, su quest’ultima rilevante questione è stato minacciato il veto di Ungheria e Polonia, che contestano il legame fra rispetto dello stato di diritto ed erogazione dei fondi Ue.

Il ricatto è andato avanti per settimane e fino al giorno del prossimo incontro – “in presenza”, dopo una serie di meeting virtuali – dei capi di Stato e di governo dei Ventisette esso rimarrà appeso come una spada di Damocle sul futuro dell’ambizioso piano che ricomprende Next Generation EU e il prossimo bilancio settennale dell’Unione.

Se il ricatto dovesse essere mantenuto, le conseguenze potrebbero essere devastanti. Dal 1° gennaio 2021, il budget dell’Unione sarebbe calcolato sulle vecchie quote annuali per dodicesimi e quindi addio a tutte le innovazioni previste dal nuovo bilancio, dai fondi di coesione e quelli sulla transizione ecologica, che del resto tanto dovrebbero interessare gli stati “carboniferi” del gruppo di Visegrád, a cominciare dalla Polonia. Inoltre, a peggiorare il tutto, si prolungherebbe di non si sa quanti mesi il varo del tanto atteso Recovery fund, su cui i Paesi più colpiti dalla pandemia – fra cui l’Italia -, fanno grande affidamento.

I termini dello scontro 
Torniamo allora alla vicenda del meccanismo che lega assieme rispetto delle regole democratiche e fondi europei, su cui i due Paesi del blocco orientale in questione hanno aperto la battaglia. La premessa è che entrambi sono sotto procedura per violazione dei valori democratici previsti in modo solenne dall’art. 2 del Trattato sull’Unione europea. Trattato, del resto, che tutti e due avevano ratificati nel 2009. Tuttavia, la procedura di condanna – con conseguente sospensione dalle istituzioni dell’Ue -, è estremamente complessa e difficilmente attuabile poiché prevede un voto unanime in Consiglio, con esclusione ovviamente dello Stato sotto accusa. Ma è evidente che essendo i reprobi in due, mentre le procedure sono singole, l’uno e poi l’altro porranno il veto. Fine della storia, quindi.

Di fronte a questi ostacoli, ma soprattutto alla luce delle continue violazioni delle libertà fondamentali a Varsavia e a Budapest, gli altri paesi dell’Ue, la Commissione e il Parlamento europeo hanno cercato vie più brevi per punire i Paesi antidemocratici. Non si è trattato quindi di una discussione nuova, ma non vi è dubbio che è stata colta l’occasione del lancio del Recovery Fund per allestire un meccanismo di sanzione più rapido e, forse, efficace poiché viene attivato a maggioranza qualificata. Di qui la reazione di Budapest e Varsavia che hanno posto la minaccia del veto sull’intero prossimo bilancio dell’Unione, entro cui è inserito il Recovery Fund, per il quale vale ancora la regola dell’approvazione all’unanimità.

Quale via d’uscita
Le contro-minacce della Commissione europea di procedere a 25 sia attraverso il ricorso alla cooperazione rafforzata sia, addirittura, con un accordo internazionale al di fuori dell’ambito del Trattato (come si fece con il Fiscal Compact) rischiano di lasciare un po’ il tempo che trovano. Poiché in ogni caso, i tempi per il Recovery Fund si allungherebbero a dismisura attraverso un nuovo negoziato fra i 25, con cifre diverse ma anche con l’abbandono delle grandi innovazioni istituzionali dell’attuale versione, dalle nuove risorse proprie all’indebitamento comune sul mercato internazionale dei capitali. Con l’ulteriore conseguenza di una perdita di immagine e di credibilità dell’Ue nei confronti dei cittadini europei. Forse un compromesso alla fine si troverà, anche perché per Polonia e Ungheria, come sottolineato in precedenti articoli di questa rivista, l’impatto dei fondi comunitari sul loro Pil è estremamente importante, se non decisivo.

Ma la verità è che la battaglia scatenata soprattutto dal premier ungherese Viktor Orbán non è sui fondi ma sugli aspetti istituzionali. È una lotta contro la Commissione, che da Next Generation EU guadagnerebbe nuovo e rilevante potere, e contro il Parlamento europeo che è all’origine dell’avvio della procedura dell’articolo 7 contro l’Ungheria.

È, in definitiva, una deriva nazionalista di Polonia e Ungheria contro il decision-making comunitario, una strada che assomiglia molto alla Brexit e che ci fa pensare che il tema delle “exit” non si concluda con il negoziato con Londra. Il che ci porta all’amara conclusione che questa Unione europea non può reggere a lungo all’esistenza del diritto di veto per le proprie più importanti decisione. Il veto non è un diritto democratico. Lo è la maggioranza qualificata o anche quella semplice, e fino a quando questo nodo non sarà sciolto anche il futuro democratico dell’Unione e dei suoi singoli Stati membri rimarrà in pericolo. Altro che riforma del Mes. È su questa ben più ampia problematica che si gioca la credibilità interna ed esterna dell’Unione.