Veto a bilancio e Recovery Fund: cosa si dice in Polonia e Ungheria
Per il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, il veto posto giorni fa da Varsavia e Budapest all’approvazione del bilancio Ue per il 2021-2027 e al Recovery Fund è una presa di posizione nei confronti di quella che ha definito “oligarchia europea“.
“L’Unione in cui l’oligarchia europea vuole punire i più deboli non è quella alla quale abbiamo aderito. Con questa Unione non ci troviamo d’accordo”, aveva detto il premier in Parlamento alla vigilia del vertice europeo di giovedì scorso, che avrebbe visto Polonia e Ungheria unite nella scelta del veto, e spalleggiate dalla Slovenia, che vira sempre più a destra.
Per Morawiecki, la questione dello stato di diritto è diventata uno strumento propagandistico, “un’arma contro la Polonia”. Il relativo meccanismo, che a suo avviso è stato inventato arbitrariamente e in modo estraneo ai trattati europei, potrebbe portare alla disintegrazione dell’Ue.
Chi pro, chi contro
Secondo un sondaggio menzionato dal portale di informazione The Warsaw Voice e realizzato da United Surveys prima del vertice europeo, il 57% dei polacchi sostiene il veto, il 20% la pensa diversamente. Il 46% si sarebbe detto contrario al vincolo del rispetto dello stato di diritto quale condizione per ottenere i fondi, il 37%, invece, avrebbe espresso favore verso tale principio.
L’opposizione politica e sociale polacca tiene, comunque, a far notare che c’è una parte consistente di Polonia che avversa la politica governativa, come dimostrano anche le imponenti manifestazioni svoltesi di recente nelle città polacche contro nuove restrizioni sull’aborto. La vicenda è stata chiaramente trattata con diversi interventi usciti sui principali organi di informazione; voci di un settore che non se la passa molto bene sul piano dell’autonomia dalla politica.
Occupandosi del veto, diversi giornali si sono concentrati sulle conseguenze economiche dell’iniziativa che accomuna Varsavia a Budapest: Gazeta Wyborcza, principale quotidiano polacco, aveva definito il veto “un duro colpo coscientemente inferto a tutte le società europee che, alle prese con la pandemia, hanno bisogno urgente di strumenti economici di sostegno”. Il giornale precisa che i cittadini polacchi perderanno quasi 60 miliardi di euro sotto forma di sussidi e prestiti del Fondo per la ricostruzione. Per il quotidiano conservatore liberale Rzeczpospolita, il veto comporta un blocco alla ripresa economica europea dopo la pandemia. Per Dziennik, di simile orientamento, il veto potrebbe ostacolare i piani della Polonia che rischia di perdere una fortuna in termini di fondi per la ricostruzione.
Il quotidiano di destra Nasz Dziennik ha dato spazio alle motivazioni del veto e ospitato, ultimamente, una nota dedicata al primo ministro ungherese Viktor Orbán e al suo ottimismo circa la possibilità di trovare un accordo e uscire da questa impasse.
Il megafono di Orbán
Anche in Ungheria le tesi governative confliggono con quelle delle opposizioni. La propaganda è in piena attività e si esprime anche attraverso la stampa. Settore che, come in Polonia, mostra seri problemi di indipendenza dal potere. Il quotidiano filogovernativo Magyar Nemzet ha ospitato un documento in cui Orbán spiega le ragioni del veto: “Oggi a Bruxelles – recita la dichiarazione – solo i Paesi che accettano gli immigrati vengono considerati in linea con il rispetto dello stato di diritto. Quelli che, invece, proteggono i loro confini dai flussi migratori non vengono visti come tali”.
Secondo questo documento il meccanismo di erogazione dei fondi è ricattatorio in quanto mira a piegare la resistenza dei Paesi che si oppongono alle politiche migratorie dell’Ue e cerca di farlo usando armi economiche. Il primo ministro ungherese precisa che il suo governo ha mostrato disponibilità al compromesso durante la fase negoziale. Il documento è stato ripreso pure dal quotidiano Magyar Hirlap, anch’esso vicino al governo, che riporta le seguenti dichiarazioni conclusive del premier: “Respingiamo la politica irresponsabile delle forze politiche favorevoli all’immigrazione che mette a rischio la gestione della crisi e mina l’unità europea”.
La risposta delle opposizioni
Tanto in Polonia quanto in Ungheria i sindaci delle capitali – entrambi appartenenti alle forze d’opposizione – hanno condannato le prese di posizione dei rispettivi premier. Rafał Trzaskowski, primo cittadino di Varsavia e sfortunato sfidante del presidente Andrzej Duda in estate, e Gergely Karácsony, omologo di Budapest, avevano inaugurato già qualche mese fa l’asse dei sindaci pro-Ue nel cuore dell’Europa illiberale.
In Ungheria, il quotidiano socialdemocratico Népszava e il portale d’informazione 444.hu, invece, danno spazio al documento e alla relativa petizione che girano sui social a firma dei leader dei principali partiti dell’opposizione. Il testo si rivolge alle istituzioni europee e ai paesi membri dell’Ue e dichiara il fatto che il governo Orbán non rappresenta tutti gli ungheresi. Il governo di Budapest, secondo i promotori dell’iniziativa, “agisce contro gli interessi e le legittime aspettative dei cittadini europei e ungheresi”.
Firmato anche da Jobbik, che da partito di estrema destra cerca di farsi percepire oggi come soggetto politico conservatore moderato ed è comunque da tempo ostile alle forze governative, il documento chiede alle istituzioni dell’Ue e ai governi degli Stati membri di trovare una soluzione affinché “l’egoismo del governo Orbán non diventi un ostacolo alla risoluzione della crisi economica europea e ungherese e affinché i cittadini e le imprese ungheresi, che temono per la loro sicurezza ed esistenza, possano ricevere quanto prima il supporto destinato loro dall’Unione europea”. Ai cittadini ungheresi viene chiesto di aderire all’appello per il bene del Paese e di tutta l’Unione.
Secondo un sondaggio di opinione pubblicato dal Parlamento europeo venerdì scorso, il 72% degli intervistati in Ungheria e Polonia sarebbe a favore della condizionalità dell’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto e dei principi democratici; quello stesso tipo di condizionalità avversata oggi da Budapest e Varsavia ma che – secondo i numeri svelati dall’Eurobarometro del Parlamento – non troverebbe d’accordo non solo le forze di minoranza, ma anche i cittadini dei due Paesi dell’Est Europa.