Trump a Waterloo: un gladiatore in ginocchio che non si dà per vinto
Chiusa la partita elettorale, ci si può domandare perché Donald Trump si ostini ad incitare i suoi ad una resistenza a oltranza. Viene in mente Hitler arroccato nel suo bunker e l’assurda battaglia di retroguardia da lui ordinata nell’aprile 1945. Ma la situazione è molto diversa, casomai è assimilabile a quella di Napoleone a Waterloo: dopo aver assaporato la vittoria a metà giornata, verso sera vedeva le sorti dello scontro rovesciarsi.
A ben vedere, però, quella di Trump non è una disfatta. Quel che conta non sono i 5-6 milioni di voti complessivi in meno rispetto a Joe Biden, ma le poche decine di migliaia di voti mancanti in alcuni Stati in bilico (swing states). È dunque piuttosto una partita persa al tie-break e, secondo lui, per alcune discutibili palle sulla linea.
Trump è un gladiatore col ginocchio a terra ma con una folla di sostenitori che lo acclama, e non si dà per vinto.
O forse a Lipsia
L’obiettivo minimo della sua forsennata campagna sulla presunta frode elettorale è alimentare il fuoco di quella tifoseria per mobilitare gli elettori della Georgia in vista del ballottaggio del 5 gennaio per i due seggi al Senato, dai quali dipende il mantenimento della maggioranza repubblicana; e, a medio termine, preparare il suo partito ad una opposizione dura e a una rivincita nel 2024 – se questa è la prospettiva, siamo non a Waterloo 1815, ma a Lipsia 1813 -.
Non è tuttavia da escludere un piano più audace: ribaltare (legalmente) il risultato elettorale e riprendersi da subito, come recita lo slogan dei suoi fan, “four more years”, approfittando delle regole anacronistiche del federalismo americano. Si tratta di convincere le maggioranze repubblicane di alcuni swing states a nominare grandi elettori un drappello di “trumpiani” nonostante il lieve vantaggio conquistato nelle urne dal candidato democratico.
Possono farlo? Secondo la Costituzione sì, anche se non ci sono stati precedenti dal 1877 (e allora la sconfessione degli elettori fu frutto di un baratto politico fra i due avversari, a spese della parità dei neri nel Sud). Per giustificare un atto così clamoroso occorrerebbe poter affermare che il processo elettorale nei rispettivi Stati ha dato un esito incerto (a failed election). La manovra potrebbe riuscire qualora i procedimenti su alcuni ricorsi prendessero troppo tempo (alcuni sono già stati respinti). Ecco l’utilità delle speciose accuse di frode elettorale.
Secondo autorevoli esperti americani, un simile colpo di coda, assolutamente inedito, è improbabile ma non impossibile: tutta la situazione, come lo stesso presidente, è senza precedenti. I politici repubblicani negli Stati in questione non possono però ignorare il rischio di suscitare gravi disordini. Trump sembra averlo messo in conto: forse non è un caso che abbia affrettatamente licenziato il ministro della Difesa Mark Esper, colpevole di essersi opposto, alcuni mesi fa, all’invio dell’esercito contro le frange violente del movimento Black Lives Matter.
Così come ha previsto l’evenienza, in un simile scenario, di un ricorso di Biden alla Corte Suprema (o di un ricorso proprio se quella strategia fallisse), motivo dell’insistenza per l’approvazione a tamburo battente, da parte del Senato, della giudice Amy Coney Barrett, necessaria per blindare la maggioranza nel massimo organo giudiziario e di giustizia costituzionale.
Un governo difficile
Supponendo che le assemblee statali si rifiutino di assecondare una simile forzatura della Costituzione e, in caso contrario, che la Corte faccia prevalere il diritto sulle preferenze politiche di sei dei suoi membri, il 14 dicembre dovrebbe venire formalizzata dall’Electoral College l’elezione di Joe Biden.
A questo punto l’attenzione si sposterà sulla ripetizione del voto in Georgia per i due seggi senatoriali. Solo nel caso insperato di una doppia vittoria democratica, si avrà parità nella Camera Alta, e il voto del suo presidente – Kamala Harris – prevarrà.
In mancanza di questo colpo di fortuna, Biden dovrà rassegnarsi a regnare per almeno due anni, e probabilmente quattro, in regime di divided government (o, alla francese, cohabitation), quindi a negoziare difficili compromessi con il capogruppo repubblicano, Mitch McConnell.
La sua lunga esperienza politica, come senatore per vari decenni e come presidente del Senato dal 2008 al 2016, gli gioverà certamente. Ma l’avversario non ha alcun interesse a dargli vita facile. Bloccando alcune nomine e leggi progressiste, può sperare di provocare disincanto fra gli elettori liberal che hanno lealmente votato per il moderato Biden, e spingerli all’astensione nel 2022 – alle elezioni di mid-term – e 2024.
Pensare già al 2024?
La prospettiva di una staffetta democratica al prossimo round, con Kamala Harris prima donna alla presidenza, è dunque aleatoria. Nei prossimi quattro anni i repubblicani si prepareranno alla rivincita, alimentando il mito della “vittoria rubata” che andrà a rafforzare ulteriormente la destra radicale e complottista.
Oggi ci rallegriamo per la vittoria di Biden che riporta normalità nei rapporti transatlantici e nella risposta alle sfide globali, dopo la parentesi del quadriennio trumpiano da dimenticare al più presto. Ma potrebbe anche solo aprire una parentesi di pochi anni nella deriva sovranista dell’America.
Difficile prevedere oggi se Donald Trump disputerà e vincerà le primarie del 2024, o pretenderà l’investitura per un suo delfino nell’ambito familiare. O se emergerà una nuova figura carismatica nelle file repubblicane. Fra le possibili candidature femminili si parla di Nikky Haley, ex ambasciatrice alle Nazioni Unite. Un aspirante temibile è Mike Pompeo, che è un fedelissimo di Trump e nel 2024 avrà 60 anni. Le sue lontane origini abruzzesi non appaiono un motivo sufficiente per auspicare che la sua ambizione si realizzi.