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Nuovo regolamento

L’Ue vieta l’importazione dei minerali dalle zone di conflitto

26 Nov 2020 - Giuseppe Di Luccia - Giuseppe Di Luccia

Tra poco più di un mese, dal 1° gennaio 2021, sarà in vigore il regolamento (Ue) 2017/821 sui minerali provenienti da zone di conflitto e ad alto rischio, anche noti come conflict minerals o blood minerals. Risultato di un lungo processo partito nel 2014, il regolamento si pone l’obiettivo di fermare il commercio di minerali che sono utilizzati per finanziare gruppi armati, che sono causa di lavori forzati e di altre violazioni dei diritti umani e che favoriscono corruzione e riciclaggio di denaro.

La normativa obbliga le imprese a indicare provenienza, quantità e data di estrazione dei minerali. Se la provenienza corrisponde a zone di conflitto o ad alto rischio, gli importatori dovranno indicare anche la miniera di provenienza, il luogo di lavorazione nonché le imposte corrisposte.

Gli obblighi di comunicazione si rivolgono alle imprese operanti nella fase upstream; in altre parole, interessano industrie estrattive e commercianti dei minerali nonché fonderie e raffinerie i cui schemi di due diligence saranno sottoposti a scrutinio dagli stessi importatori di minerali, che condizioneranno il loro trasferimento all’accertamento della conformità alle disposizioni del regolamento.

I minerali in questione sono la cassiterite, fonte dello stagno, la wolframite che è alla base del tungsteno, la columbite-tantalite del tantalio; a questi si aggiunge l’oro; questi quattro metalli – chiamati 3Tg dalla dicitura inglese – sono impiegati nella produzione di numerosi beni, tra cui componenti elettroniche di computer, telefonini o nell’automotive.

Imprese coinvolte
Uno dei punti cardine delle discussioni sul regolamento Ue – che hanno coinvolto anche società civile, industrie e commercianti – ha riguardato l’imposizione di obblighi anche in capo alle imprese attive nel downstream, ossia le imprese che importano direttamente i metalli o attive nelle fasi successive di produzione, assemblaggio o utilizzo finale.

La corrispondente disciplina statunitense (sezione 1502 del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act del 2010) richiede a tutte le imprese quotate in borsa, le cui azioni sono registrate presso la Securities and Exchange Commission (Sec), di rendere pubbliche le procedure applicate per l’identificazione delle fonti di approvvigionamento dei metalli 3Tg. Considerando che tra le quotate ci sono soprattutto società produttrici di beni finiti, tali obblighi si estendono a tutta la supply chain, includendo imprese nazionali e internazionali, attive nel downstream.

Rispetto al downstream, il regolamento Ue, invece, impone obblighi di dovere di diligenza solo alle imprese che importano direttamente i metalli, non ricomprendendo le imprese attive nelle fasi successive di produzione, assemblaggio o utilizzo finale. Ciò, di fatto, rimette nelle mani dei consumatori la possibilità di scegliere beni prodotti con minerali “conflict-free” e conseguentemente il livello di efficacia della normativa.

Portata geografica
La disciplina statunitense ha un perimetro di applicazione geograficamente definito, in quanto limita la dovuta diligenza alle importazioni di 3Tg provenienti solo dalla Repubblica Democratica del Congo o dai Paesi confinanti; il regolamento Ue, più ampiamente, impone i suddetti obblighi di due diligence se i metalli provengono da zone di conflitto o ad alto rischio, senza una precisa connotazione geografica, ma in base a circostanze meglio specificate in apposite linee guida.

In particolare, le imprese europee importatrici dovranno effettuare le opportune verifiche se i minerali provengono da zone di conflitti armati, zone fragili in quanto reduci da conflitti, zone caratterizzate da una governance e una sicurezza precarie o inesistenti, come uno stato in dissesto, e da violazioni generalizzate e sistematiche del diritto internazionale, incluse le violazioni dei diritti dell’uomo.

Unione europea e normative power
Il regolamento sui conflict minerals alimenta la discussione sul ruolo di potenza dell’Unione europea nella comunità internazionale. Un concetto di potenza che non si inquadra nelle tradizionali definizioni delle teorie di relazioni internazionali, le quali prestano attenzione prevalentemente alle risorse materiali (si pensi al potere finanziario degli Usa o alle risorse naturali della Russia, hard power) o immateriali (si pensi all’influenza culturale francese e cinese in Africa, soft power) impiegate per condizionare gli altri Paesi, per il perseguimento di obiettivi nazionali.

È piuttosto un concetto di egemonia, che guarda alla leadership regolatoria per conseguire obiettivi più generalmente riconosciuti (normative power), come quelli enunciati nel regolamento, indipendentemente dalla sua impronta eurocentrica. Emerge, inoltre, l’intervento dell’autorità pubblica nel libero mercato, che accompagna la tendenza a fondere la politica estera e di sicurezza con quella industriale, richiamando la necessità di rafforzare la collaborazione con il settore privato.

Sin dal suo insediamento, l’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell ha dichiarato la necessità per l’Ue di imparare il linguaggio del potere. Il percorso è lungo ed è reso tortuoso da note fratture interne, ma gli attuali stravolgimenti rappresentano un’opportunità per accelerare il processo, promuovendo in prima linea progresso e sostenibilità a livello globale.

Questa pubblicazione fa parte di una serie realizzata in collaborazione con lo Studio Legale Padovan.