La politica estera di Biden: tutto come prima?
Joe Biden afferma che la Nato è un “sacro dovere” degli Stati Uniti. Dopo gli attacchi di Donald Trump, gli europei ritrovano il loro grande alleato. Sarà fortissima la tentazione di fare come se nulla fosse successo e che Trump fosse solo una disgraziata parentesi. Ma potrebbe rivelarsi un grave errore.
La politica estera è definita dalla politica interna e Biden sarà il presidente di un Paese profondamente diviso politicamente, gravemente ferito da una devastante epidemia, economicamente indebolito e alle prese con numerose difficili crisi internazionali, aggravate o iniziate dalle scelte del suo predecessore. Il nuovo presidente dovrà ricostruire la credibilità degli Stati Uniti e insieme trovare il modo di risolvere, o quanto meno riportare sotto controllo, le crisi in atto.
Questo non lascia molto spazio per il business as usual. Per affrontare la questione della Corea del Nord, il nuovo inquilino della Casa Bianca avrà bisogno del Giappone, della Corea del Sud, ma anche della Cina. D’altro canto non potrà abbandonare Taiwan, né fare concessioni al nazionalismo espansionista di Pechino nel Pacifico.
Ci si aspetta una posizione americana più dura nei confronti di Vladimir Putin e dell’avventurismo militare della Russia nel Mediterraneo che coinvolgerà direttamente l’Europa e verrà recepita in modo diverso da Paese a Paese. In questo quadro, né gli europei, né gli americani (repubblicani o democratici) hanno ancora elaborato una strategia credibile nei confronti della Turchia di Erdogan e delle sue ambizioni regionali.
Nel frattempo, Biden ha espresso l’intenzione di riprendere il dialogo con l’Iran, cosa peraltro tutt’altro che facile, sia perché il vecchio accordo sul nucleare che Trump aveva abbandonato dovrebbe essere esteso al settore missilistico, sia perché Teheran ha nel frattempo indurito la sua posizione. Più in generale, c’è il rischio che una tale svolta da parte di Washington spinga Israele, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi a irrigidire il loro confronto con l’Iran, rischiando il conflitto armato.
In altri termini, non è possibile limitarsi a rimettere indietro gli orologi. Come minimo, gli alleati europei farebbero bene a prepararsi a una richiesta pressante di maggiore impegno e più esplicito allineamento nei confronti sia di Mosca che di Pechino. Un atteggiamento tiepido o interlocutorio da parte degli alleati danneggerebbe Biden in politica interna, indebolendo la sua leadership e la sua forza negoziale. E questo non potrebbe che riflettersi in politica estera.
La vittoria elettorale di Biden non è stata anche una vittoria del Partito democratico. È possibile che il Senato resti a maggioranza repubblicana dopo i ballottaggi di gennaio in Georgia, e la Camera dei Rappresentanti è sì rimasta in mano ai democratici, ma con un margine ridotto. Essi già guardano con preoccupazione alla prossima scadenza elettorale fra due anni.
Biden dovrà cercare il punto di incontro tra un Partito democratico che deriva fortemente a sinistra e un Partito repubblicano che resta ancora a trazione “trumpiana”. Ha quindi bisogno di idee forti e condivise e di successi.
In politica estera, questo potrebbe tradursi nella riproposizione agli alleati di una grande “lega delle democrazie”, con il compito di arginare la crescente influenza internazionale delle potenze totalitarie. È un disegno che in passato era stato soprattutto appannaggio della destra, ma che ora potrebbe assumere contorni progressisti. Inoltre, avrebbe il vantaggio, per la politica americana, di collegare assieme sia il versante dell’Atlantico sia quello del Pacifico.
Tutto dipende da come verrà presentato e gestito. Ed è qui che gli europei avrebbero interesse a prendere l’iniziativa, avanzando per primi questa idea e contribuendo così anche a definirne i contorni politici. Certamente alcuni Paesi, come l’Ungheria o la Polonia, e un certo numero di forze politiche europee, vedrebbero in tale iniziativa una possibile minaccia nei loro confronti, ma allo stesso tempo non potrebbero (né vorrebbero) contrastare un’idea sponsorizzata dal nuovo presidente americano. Allo stesso tempo, dobbiamo prendere atto che i vari tentativi fatti per “esportare” la democrazia attraverso l’uso della forza sono regolarmente falliti, a volte creando grandi disastri.
Bisognerebbe quindi cercare di conciliare l’affermazione e la difesa dei principi democratici con il rafforzamento della reciproca fiducia – un po’ come avvenne a suo tempo in Europa grazie agli accordi di Helsinki che, se da un lato propugnavano i diritti umani e politici degli individui, dall’altro riconoscevano l’autonomia e l’inviolabilità degli Stati.
È chiaro però che un tale obiettivo potrà essere perseguito solo se nel frattempo gli equilibri di potenza internazionali resteranno stabili e sicuri, bloccando le spinte revisioniste che oggi si stanno moltiplicando ad ogni livello.
Abbiamo quindi di fronte un’agenda internazionale molto complessa, che da un lato propone nuovi grandi obiettivi globali quali il risanamento ambientale, il raggiungimento di nuovi equilibri economici, il controllo delle pandemie, e dall’altro lato deve consolidare un nuovo sistema di sicurezza, sia globale che regionale.
Il ruolo che giocherà l’Europa potrebbe rivelarsi determinante.