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Tra Convenzione di Istanbul e Codice Rosso

Giornata contro la violenza sulle donne: il lavoro che c’è ancora da fare

24 Nov 2020 - Donatella Conzatti - Donatella Conzatti

Non solo in occasione del 25 novembre, quando si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ma tutti i giorni è doveroso ricordare come questo sia un fenomeno strutturale, diffuso e omogeneo, non solo in Italia, ma nel mondo intero. I numeri sono impressionanti e faticano ad essere arginati.

Se analizziamo la mappa mondiale, vediamo una situazione pressoché omogenea, che coinvolge anche quelle nazioni che fanno della difesa dei diritti e quindi del rispetto della dignità umana, della libertà e dell’uguaglianza il loro fondamento.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce la violenza contro le donne “un problema di salute di proporzioni globali” e dichiara che, nel mondo, una donna su tre, nel corso della propria vita, ha subito una qualche forma di violenza.

Per questo motivo, la sottoscrizione, nel 2011, della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa è stata una vera e propria “rivoluzione copernicana” perché ha posto le basi del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, in grado di creare un quadro di indirizzo completo e capace, se attuato, di proteggere le donne dalla violenza.

La Convenzione è incentrata su tre pilastri: la prevenzione, la protezione e la punizione. Va aggiunta una quarta “P”, la politica, strumento con il quale si può intervenire.

La Convenzione costituisce un passaggio fondamentale perché riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Individuando strategie per il contrasto della violenza e definendo una serie di nuove tipologie di reato (le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, lo stalking), crea i presupposti affinché gli Stati siano ritenuti responsabili se non attuano normative specifiche e non garantiscono risposte adeguate per prevenire tali violenze.

Il titolo della Convenzione “sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” svela inoltre un altro fatto: oltre l’80% dei casi di violenza avviene tra le mura domestiche e nell’ambito delle relazioni affettive.

Dei 47 Paesi che compongono il Consiglio d’Europa, alcuni, nonostante il richiamo da parte del Parlamento europeo, non l’hanno ancora ratificata. Tra questi figuravano la Bulgaria, la Croazia, la Grecia, l’Irlanda, la Lettonia, la Lituania e il Regno Unito. Ma l’elemento più allarmante è che ci sono Paesi, come la Polonia, che dalla Convenzione vogliono addirittura recedere.

I dati Istat confermano che non solo in Europa, ma anche in Italia i numeri sono drammatici. Basti pensare che il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza e sempre nel nostro Paese una donna viene uccisa ogni due giorni e mezzo.

Proprio per questo l’approccio integrato, previsto dalla Convenzione, rappresenta un’innovazione nei metodi di contrasto alla violenza.

Certo, ci sono le luci, ovvero la presenza di un quadro strategico, e poi ci sono le ombre date dal livello differenziato di attuazione della Convenzione nei singoli Paesi che l’hanno ratificata.

Se i dati sono così allarmanti significa che, nonostante la Convenzione costituisca una indubbia pietra miliare, ancora non si è fatto abbastanza per attuarla e realizzare tutti gli interventi previsti dalle tre linee strategiche: prevenzione, protezione e punizione.

Dal punto di vista normativo, compreso il fronte della punizione, possiamo confermare che l’Italia è all’avanguardia. Anche l’ultimo Codice Rosso ha aggiunto dei tasselli importanti (alcuni dei quali modificabili), introducendo anche nuove fattispecie di reato, come il revenge porn. Sappiamo, tuttavia, che solo il 10% delle donne denuncia il proprio maltrattante e solo una parte dei maltrattanti denunciati vengono giudicati colpevoli e scontano una pena.

La restante parte dei casi di violenza va quindi gestito con altri strumenti: quelli della prevenzione e della protezione. Le reti di protezione sono notoriamente costituite dai Centri antiviolenza, dalle Case rifugio, dai Centri per il reinserimento lavorativo delle donne vittime. Meno noti è il fatto che nella rete di protezione nazionale ci sono anche i Centri per la rieducazione degli uomini autori di violenza, i cosiddetti “maltrattanti”.

L’art. 16 della Legge 77 del 2013, con la quale l’Italia ha ratificato la Convenzione, stabilisce infatti come uno dei pilastri fondamentali nella strategia di contrasto alla violenza di genere, sia proprio l’attuazione di percorsi di rieducazione dei maltrattanti.

È di tutta evidenza, infatti, che se non cambia il comportamento maschile, non si riuscirà a debellare la violenza contro le donne. Per attuare questo cambiamento, i Centri operano con gruppi di uomini, per far comprendere cosa sia violenza, il dolore indelebile provocato, la gestione della propria rabbia.

Non tutti gli uomini cambiano e non tutti i rapporti possono trovare una ricomposizione. Spesso le ferite psicologiche e fisiche ed il dolore sono troppo profondi così come i reati commessi. Ogni volta che un uomo cambia è però e comunque un passo avanti nel contrasto alla violenza sulle donne. Il cambiamento di ogni singolo soggetto è un nuovo tassello nel cambiamento culturale del Paese.

Il Codice Rosso ha già previsto che durante la detenzione, i condannati per atti di violenza, possano frequentare questi percorsi, così che la pena oltre che punitiva sia anche riabilitativa ed eviti pericolose (per le vittime) recidive all’uscita dal carcere.

È un passo ma non è sufficiente. Infatti, anche la maggioranza degli uomini che non vengono denunciati e condannati deve poter comunque frequentare percorsi di rieducazione e di consapevolezza. È per tali ragioni che l’attività dei Centri per gli uomini maltrattanti è importante anche come strumento di prevenzione e protezione. I percorsi devono essere garantiti a tutti coloro cui viene comminato l’ammonimento del questore ed anche a coloro che sono raggiunti da misure cautelari, così da proteggere le donne in ogni momento.

L’obiettivo principale del lavoro sugli uomini non è distogliere attenzione dal lavori per le donne ed i figli, che assistono e che subiscono violenza, ma è quello di interrompere i comportamenti violenti. I Centri per gli uomini maltrattanti non distolgono nemmeno risorse economiche dai centri antiviolenza.

È vero che i Centri antiviolenza devono essere finanziati in misura più consistente e con modalità più tempestive. E nel contempo è necessario destinare risorse aggiuntive, così come abbiamo fatto del Decreto Agosto con 1 milione di euro all’anno a decorrere dal 2020, per i Centri per gli uomini maltrattanti, in modo tale che in tutta Italia ci sia anche questo servizio a disposizione dell’approccio integrato alla violenza sulle donne.

Il lavoro sugli uomini costituisce un cambio culturale tipico dell’approccio integrato della Convenzione, forse non ancora del tutto compreso. Ammettere la necessità del lavoro sul comportamento dei maltrattanti costituisce il presupposto per scalfire alla radice i pregiudizi su cui poggia la cultura paternalista. Proprio quella cultura che, basandosi su una sperequazione di ruolo e potere tra uomini e donne, costituisce il contesto in cui si genera, si giustifica e si alimenta la violenza di genere.

Il 25 novembre è una data importante che aiuta tutti a ricordare e induce a tener presente che molto è stato fatto, e che tantissimo resta da fare sia a livello nazionale sia internazionale per permettere alle donne di liberarsi dalle discriminazioni e dalla violenza.