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DOPO IL VETO AL COREPER

Il ricatto di Ungheria e Polonia su bilancio e Recovery Fund

18 Nov 2020 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Puntuale, come previsto, è arrivato il ricatto di Ungheria e Polonia sul Recovery Fund e sullo stesso nuovo bilancio settennale dell’Ue. Nella riunione del Coreper – dove siedono i rappresentanti permanenti degli Stati membri – di lunedì, dedicata all’intero pacchetto di misure legate ai 750 miliardi del Recovery Fund e alle risorse proprie (le “tasse comunitarie”) destinate a rimborsare il grande debito contratto dalla Commissione sul mercato internazionale, Budapest e Varsavia hanno posto il veto.

La ragione deriva da una parallela votazione, questa volta a maggioranza qualificata, sul cosiddetto meccanismo di rispetto delle regole democratiche e dei valori dell’Ue nei Paesi membri. La condizionalità consiste nel legare strettamente la concessione di fondi comunitari nei settori previsti dalle politiche dell’Ue a dimostrabili violazioni dei valori e leggi democratiche descritte nell’articolo 2 del Trattato sull’Ue.

Recovery Fund a rischio
È noto che proprio i due Paesi in questione sono già da alcuni anni sotto procedura di accertamento (prevista dall’articolo 7 del Trattato), in base all’accusa di un progressivo e radicale allontanamento interno dalle regole democratiche dell’Unione. Fino ad oggi, data la complessità e la lentezza dei processi decisionali in materia, non si è ancora arrivati ad una “condanna” definitiva. Ma per segnalare che la questione non è stata affatto accantonata, si è pensato di legare esplicitamente il flusso di fondi comunitari futuri, sia del Recovery Fund sia del bilancio ordinario, al rispetto delle norme comuni.

Già durante il Consiglio europeo di luglio – quello che ha dato il via al nuovo piano straordinario dell’Ue -, la questione del legame era stata affrontata. Ma, per ottenere l’approvazione unanime, il testo finale era stato vago e generico, tanto che Ungheria e Polonia non avevano avuto ragioni per bloccarlo. Ma su questo tema, come era ovvio, è intervenuta la terza autorità di bilancio, il Parlamento europeo, che ha reso più esplicito e stringente il meccanismo sulle eventuali sanzioni finanziarie a carico dei reprobi.

Non è parso quindi vero a Viktor Orbán e al suo collega polacco Mateusz Morawiecki  di bloccare il completamento delle procedure di approvazione sia per il Recovery Fund sia per il bilancio settennale da 1.074 miliardi di euro, che dovrebbe partire il 1° gennaio prossimo.

Fondi in ritardo e scontro di valori
Ciò apre la strada ad un ritardo non valutabile, ma certo non breve, nella finalizzazione del pacchetto finanziario dell’Unione, proprio in un momento in cui tutti i Paesi membri sono alle prese con la seconda drammatica ondata della pandemia e con un conseguente nuovo aggravamento della situazione economica complessiva.

C’è davvero da chiedersi perché i due Paesi in questione, pure essi colpiti duramente sul piano sanitario ed economico, vogliano ritardare, se non bloccare, il rivoluzionario piano di aiuti comunitari. La risposta non può che essere politica, dal momento che per Budapest e Varsavia i fondi comunitari hanno sostenuto fortemente il Pil nazionale in tutti questi anni. Possono davvero rinunciare a questo bengodi di vantaggi e sostegni dell’Ue?

In fondo i due governi, negli ultimi tempi di svolta sovranista e antidemocratica, hanno considerato apertamente l’Ue come una specie di generoso bancomat. Ed è proprio questa loro utilitaristica visione dell’Unione ad averli progressivamente allontanati dai suoi valori fondanti.

Soprattutto il leader ungherese Orbán ha fatto della lotta contro le istituzioni dell’Ue la sua bandiera nazionalistica e contemporaneamente ha vantato senza alcun ritegno i vantaggi della democrazia illiberale. Non si è limitato semplicemente a queste assurde dichiarazioni ideologiche, ma ha poi messo in pratica con leggi liberticide il proprio potere di capo del governo. Ha anche approfittato della pandemia per stringere ancora di più il controllo sul proprio Paese.

Ora toccherà alla presidenza di turno tedesca trovare il solito compromesso. Ma il compito è terribilmente complicato anche perché la stessa Cdu/Csu di Angela Merkel ha a lungo sopportato i comportamenti di sfida di Orbán, il cui partito, pur se sospeso, fa ancora parte del Partito popolare europeo (Ppe). Per di più, Merkel dovrà tenere presente la grande pressione che i Paesi del sud e la Francia stanno esercitando sulla presidenza tedesca perché il Recovery Fund si avvii.

Riflessioni necessarie
Alla fine, con chissà quali ritardi, la procedura ripartirà, anche perché Budapest e Varsavia non vogliono certamente rinunciare ai fondi. Ma questo episodio ci ha fatto capire almeno due cose.

La prima è che la strada per concludere l’iter del Recovery Fund sarà piena di ostacoli, dal momento che sono previste anche le ratifiche da parte dei Parlamenti nazionali per dare attuazione alla decisione sulle risorse proprie.

La seconda è che l’Ue, nella sua attuale configurazione, è del tutto ingovernabile. Il potere di veto è un’arma troppo potente per lasciarla nelle mani di leader irresponsabili. Ma neppure un’estensione a tutte le istituzioni e a tutte le politiche del voto a maggioranza qualificata potrà risolvere i problemi di governo dell’Unione.

Nel futuro si dovrà davvero pensare a un sistema a doppia velocità o a un gruppo di Paesi che decida di avanzare per proprio conto sulla strada dell’integrazione. Oggi, però, abbiamo estrema urgenza di uscire da questa impasse e fare ripartire il Recovery Fund.