Fine di un brutto film
Il film appena terminato era troppo lungo e inutilmente angoscioso. Ingoiamo l’ultimo popcorn, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo un po’ allucinato dallo schermo su cui dopo l’agognata dissolvenza sfilano i titoli di coda.
Come se non bastasse, il finale è di quelli che ti lasciano con la convinzione che non tutto è stato detto, che l’eroe potrebbe non essere così felice come l’inquadratura finale suggeriva e che i criminali non sono stati tutti eliminati.
Sta andando in onda un sequel di un po’ confuso fra cavilli giuridici e manifestazioni di piazza. Dunque, “Trump 2, il ritorno”? Dio ce ne scampi, non guardiamo il sequel; appassionerà solo avvocati e giornalisti. Restiamo però con due interrogativi e una certezza. Quest’ultima ci dice che quattro anni di trumpismo lasciano un Paese isolato sul piano internazionale e profondamente lacerato da fratture sociali, culturali, geografiche ed etniche; un groviglio difficile da districare, un paese incerto sul proprio avvenire e con una diffusa carica di odio che non si vedeva dai tempi della guerra civile.
La missione del presidente-eletto
Porvi mano è essenziale e non solo per il futuro dell’America. Una delle spiegazioni del carattere sempre più aggressivo del nazionalismo cinese, dell’assertività russa e delle intemperanze di altri autocrati come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, è la convinzione dell’inesorabile declino dell’America e del disfacimento della sua democrazia; processi che Trump, lungi dall’interrompere come pretende, ha invece accelerato. Gli autocrati sottovalutano sempre la forza delle democrazie, ma è di fondamentale importanza che questa convinzione sia smentita.
Il primo interrogativo è su cosa farà Biden per riparare tutto ciò. La risposta è facile ma non conclusiva. L’America non ha eletto un leader per condurla verso nuovi radiosi destini, ma un medico: un uomo il cui principale compito sarà di curare le ferite e aiutarla a riconciliarsi con sé stessa. Formerà presumibilmente un governo centrista con qualche concessione alla sinistra che, smentendo molti timori, lo ha sostenuto con lealtà. Molto dipenderà dalla composizione finale del Senato, ignota fino a gennaio, quando si terranno i ballottaggi per i due seggi della Georgia. Compito arduo sarà ricomporre l’unità del partito democratico anch’esso lacerato da anni di polemiche e a cui le elezioni, indipendentemente dalla conquista del trofeo più grande, sono andate piuttosto male sul piano sia federale sia locale. Gli americani hanno votato contro Trump, non necessariamente per i democratici.
Il destino dei repubblicani
Il secondo interrogativo è speculare: cosa succederà al partito repubblicano? Forse ancora padrone del Senato, le elezioni gli sono andate tutto sommato bene. L’establishment del partito non si può nemmeno lamentare dei quattro anni di governo “dell’intruso”: un’insperata riforma fiscale e un’ondata senza precedenti di nomine di giudici conservatori, fino alla Corte Suprema. L’intruso ha conservato finora una sostanziale lealtà nel partito, riuscendo a tenere insieme l’anima populista e quella conservatrice come garanzia di vittoria. Per mantenere questi vantaggi, l’establishment ha fatto di tutto, compreso coprire molte nefandezze dell’intruso e impedirne l’impeachment. Ora vorrà preservare questa coalizione, ma come fare senza Trump?
Il problema è se possibile ancora più difficile che per i democratici. Un Trump ferito ma non ucciso, deciso come una belva braccata a cercare a tutti i costi vendetta, porrebbe (porrà?) al partito un dilemma grave: voltare pagina e cercare il dialogo con Biden, o assecondare la ricerca di rivincita che sarà il riflesso dei populisti? Le prime reazioni di molti esponenti di rilievo di fronte al tentativo di Trump di destabilizzare il processo elettorale mostrano un partito diviso. Dalla risposta a queste domande dipenderà in parte fino a che punto Biden riuscirà a sanare le ferite degli Stati Uniti.
Il futuro delle relazioni transatlantiche
E noi europei? Non illudiamoci, non ridiventeremo una priorità. Sorprende peraltro la continua lamentela di “un’America che volta le spalle all’Europa per interessarsi all’Asia”. Cosa significa? La situazione non impone forse a tutti noi di interessarci all’Asia in modo prioritario? Ciò rende forse la solidarietà atlantica meno importante?
Per quanto riguarda i nostri rapporti, circolano due versioni. La prima è quella dei malmostosi: cambierà lo stile, ma la svolta inaugurata da Trump esprime un cambiamento permanente e la divergenza con l’Europa è destinata a crescere. La seconda è quella degli angelici: i nostri rapporti torneranno “come prima” e il multilateralismo trionferà di nuovo.
Sono entrambe fuorvianti perché “prima” è un’astrazione. Non c’è mai stata un’età dell’oro dei rapporti transatlantici; basti ricordare Suez 1956, il ferragosto monetario del 1971, o la seconda guerra del golfo. Il rapporto è sempre stato caratterizzato da un continuo aggiustamento degli interessi, accompagnato da una permanente condivisone di valori. È però vero che i problemi di oggi sono più difficili da affrontare e l’arrivo di Biden in sé non li semplifica. La tentazione di un certo disimpegno internazionale, un rinnovato interesse per la politica industriale, qualche tentazione protezionista, una crescente preoccupazione per la Cina, sono fenomeni che Trump ha esasperato senza peraltro ottenere grandi risultati ma che esistevano anche prima di lui. Quattro anni di Trump hanno inoltre lasciato in Europa uno strascico di antiamericanismo in crescita che sarà forse complicato riassorbire.
È vero invece che con Biden avremo di nuovo un interlocutore che parla il nostro stesso linguaggio. Potremo almeno ricominciare a fare ciò che fanno le persone serie: discutere e negoziare, a cominciare dal cambiamento climatico. Cosa che non ci esime dal definire con urgenza e realismo i nostri interessi e dotare l’Unione europea di una capacità di azione che ora manca, compreso in campo militare. Trump non era il solo problema e Biden non sarà da solo la soluzione. Tuttavia, in un mondo in cui non esistono il bene e il male, ma solo il meglio e il peggio, celebriamo: Biden è decisamente meglio. Godiamoci il momento, abbandoniamo i pop corn e stappiamo lo champagne.