Dialogare con l’Islam?
Con la Francia e l’Austria, tutta l’Europa riscopre il terrorismo islamico. Si riaprono questioni mai risolte: come organizzare la sorveglianza dei sospetti radicalizzati, delle moschee e delle prigioni, come controllare le frontiere e accelerare i rimpatri di chi non ha diritto di restare, come far fronte alla frattura sociale nei ghetti che abbiamo lasciato crescere; infine, come investire nella scuola. Ci si domanda come fare tutte queste cose senza intaccare i principi dello stato di diritto.
Cresce infine la consapevolezza che la battaglia non sarà vinta senza l’attiva collaborazione delle comunità mussulmane residenti in Europa; per questo, si dice, è necessario un continuo dialogo basato sul rispetto reciproco delle rispettive identità culturali e religiose. L’appello al dialogo è del resto accolto e perfino invocato da parte dei leader di quelle comunità.
Formulato così, tuttavia l’impegno rischia di avere solo un significato autoassolutorio. Dialogare significa per prima cosa capire l’interlocutore. Ma poi? Torniamo tutti a casa contenti del dialogo come dopo un seminario? Purtroppo non è così. Un dialogo che investe i destini dei cittadini e le regole del vivere comune, richiede convergenza ma anche la consapevolezza che esistono a volte questioni non negoziabili.
Per la maggioranza della popolazione europea, religiosa o secolarizzata, cresciuta con i valori che la storia dei nostri Paesi ha prodotto in secoli di evoluzione, ci sono almeno tre questioni non negoziabili.
La prima riguarda il rifiuto della violenza e del terrorismo. Da questo punto di vista, la convergenza è abbastanza grande. A parte una minoranza che si ostina a “comprendere” le azioni dei terroristi e a spiegarle con i crimini del colonialismo con toni che ricordiamo i “compagni che sbagliano” all’epoca delle nostre brigate rosse, la maggioranza condanna la violenza senza riserve. Sarebbe bello concludere che quindi l’unità di consensi è possibile, addirittura in fase di realizzazione. Purtroppo convenire che non vi è nell’Islam nulla di intrinsecamente incline alla violenza è solo l’inizio del percorso.
C’è l’illusione che esistano due comunità mussulmane ben distinte fra loro: una maggioritaria e “moderata” pronta ad accettare tutti i nostri valori, un’altra minoritaria radicalizzata e incline alla violenza. Come dimostrano invece numerosi studi, il cammino verso la radicalizzazione è tortuoso e passa per momenti di crisi d’identità, emarginazione sociale, delinquenza, influenza del dogmatismo salafita, che sono fra loro in rapporto non lineare e spesso imprevedibili. La dinamica che ha portato alla decapitazione dell’insegnate francese, con il coinvolgimento indiretto di alcuni genitori e allievi, è un esempio della possibile anche se non voluta continuità fra estremismo religioso e violenza terrorista.
Il dialogo non può accontentarsi del rifiuto della violenza senza toccare anche altre due questioni per noi “non negoziabili”. La seconda riguarda il ruolo della donna nella nostra società. Una delle cause principali della crescita di sentimenti anti-islamici in società liberali, come quelle scandinave, è il timore che la tolleranza di certi comportamenti possa compromettere i grandi progressi dell’emancipazione femminile realizzati nell’ultimo secolo. Ciò spiega, per esempio, l’importanza di questioni apparentemente secondarie come il porto del velo, il rifiuto di sport promiscui, o gli orari riservati alle donne nelle piscine.
La terza questione riguarda la separazione della sfera religiosa da quella pubblica. In questo rientra il problema della libertà di espressione, compreso il diritto alla blasfemia.
Fiduciosi nella forza dei nostri valori potevamo sperare che le generazioni di immigrati cresciute in Europa ed educate nel nostro sistema scolastico avrebbero finito per assorbire anche questi valori “non negoziabili”. La realtà ci dice il contrario.
Concentrarci sul problema della blasfemia è riduttivo e fuorviante. Sono ora emerse o riemerse in Francia delle analisi sociologiche effettuate dopo l’attentato a Charlie Hebdo, da cui risulta che circa la metà degli adolescenti mussulmani rifiutavano di condannare l’attentato ed erano favorevoli alla proibizione di libri che attaccano la religione. Altre inchieste mostrano una diffusa convinzione che i precetti religiosi sono superiori alle leggi dello stato e persino alla scienza. Altre ancora mostrano una massiccia diffusione di sentimenti antisemiti, senza nessuna reale distinzione fra antisemitismo e antisionismo. Sono tutti sentimenti non solo avallati, ma a spesso instillati e imposti dalle famiglie.
A fronte di ciò, l’orrore per l’insegnante decapitato in Francia ha alzato il velo sulla situazione della scuola: una lunga omertà, in sostanza una rinuncia a insegnare i valori della Repubblica in vaste zone del Paese. Nulla fa pensare che la situazione non sia simile nel resto del continente.
Le inchieste citate sopra mostrano quanto sia diffuso il rifiuto dei tre valori “non negoziabili” che ho citato e quanto sia forte il rischio che il “dialogo” diventi solo un pretesto per avallare la frattura. Ciò aiuta a meglio comprendere la radicalità del progetto annunciato da Macron dopo gli attentati e che si dovrà tradurre a breve in testi legislativi.
La responsabilità più grande grava però sui leader della comunità mussulmana che devono prendere coscienza della profondità del necessario cambiamento culturale, senza il quale concetti come “dialogo” e “rispetto delle identità culturali e religiose” saranno solo pretesti per avallare una frattura che non cesserà di allargarsi.