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Donne e Diplomazia

Un Paese tra desiderio e timore del ritorno alla normalità. Parla Elisabetta Camussi, Comitato Esperti Task Force Colao

13 Ott 2020 - Serena Santoli - Serena Santoli

Divario di genere, smart working, didattica a distanza, assenza di futuro, resilienza psicologica. A parlare di come l’Italia ha vissuto la prima fase della pandemia e che cosa è necessario garantire nella ripartenza è la professoressa Elisabetta Camussi, docente di psicologia sociale all’Università di Milano Bicocca, nominata dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, componente del Comitato di esperti in materia economico-sociale per la ripartenza, guidato da Vittorio Colao.


Professoressa Camussi, lei è entrata a far parte della task force di esperti guidata da Vittorio Colao, come supporto per il governo nelle linee di azione per la fase 2 della pandemia, quella della ricostruzione e della ripartenza. A me ha colpito una sua intervista rilasciata per Unicef, in cui lei ha affermato che la pandemia ha azzerato un secolo di cambiamenti, per quanto riguarda il ruolo e la figura della donna nella società. Ha anche aggiunto che quanto accaduto con la pandemia non dovrà penalizzare ulteriormente le donne. In che modo il governo italiano si sta muovendo per impedire che ciò accada? Cosa potrebbe fare?
“Il lavoro, che abbiamo fatto con le colleghe e i colleghi nel Comitato Colao, è stato porre attenzione agli individui e alle ricadute che la pandemia e la post-emergenza avrebbero avuto sugli individui stessi. Questa crisi infatti non ha fatto altro che acuire e rendere più evidenti le disuguaglianze, in primis tra donne e uomini, che erano già molto presenti nel nostro contesto sociale. Sono questioni alle quali da decenni non si dedica il dovuto spazio. Il mio riferimento al fatto che quanto accaduto rischia di azzerare un secolo di cambiamenti sociali deriva dal ricordare che le donne hanno fatto un grande lavoro di emancipazione, per uscire dallo spazio privato ed entrare nello spazio pubblico. Lo spazio pubblico per la partecipazione femminile è stato in primo luogo, nel Novecento, la partecipazione al mondo del lavoro. La pandemia, nel momento in cui ha rinchiuso tutti noi, uomini e donne, di tutte le età, nelle case, chiedendoci contemporaneamente di svolgere lavoro di cura e di occuparci del nostro lavoro “a distanza”, attraverso le diverse forme di smart working, ha di fatto eliminato – senza darci il tempo di organizzarci diversamente – quella conquista di almeno parziale separazione tra tempo pubblico e tempo privato, che per le donne era stata una conquista ancora più faticosa che per gli uomini. Da qui l’importanza fondamentale di aver messo nel Piano Colao, in maniera innovativa e strategica,come terzo asse per il rilancio del Paese – la nostra è una proposta da tecnici, su cui spetta alla politica decidere – la parità di genere e l’inclusione sociale. Dopo la digitalizzazione e la green economy, abbiamo indicato la parità di genere e l’inclusione sociale come quell’investimento necessario e non rinviabile attraverso il quale non si ripristina semplicemente la “normalità” di prima della pandemia, ma si fa innovazione tecnologica e sociale nello stesso tempo: con la partecipazione di soggetti e sguardi differenti. Si tratta peraltro di priorità da lungo tempo evidenziate a livello di Unione europea”.

Durante il lockdown, molti ragazzi hanno trascorso tanto tempo in casa con i loro genitori, i quali hanno dovuto adottare anche loro modalità di smart working. Ad esempio, i ragazzi hanno svolto gli esami universitari online e le lauree stesse sono state discusse online. Questo è un beneficio per i ragazzi? È un approccio corretto, giusto per la società e per il loro futuro?
“Con il lockdown abbiamo assistito al fatto che tutto il mondo fisico, esterno, i luoghi nei quali trascorrevamo, in tempidistinti, le nostre giornate, si è improvvisamente rinchiuso nelle nostre case. Sono state messe a contatto persone e componenti del nucleo familiare, che non necessariamente prima trascorrevano il proprio tempo continuativamente e quotidianamente insieme. È scomparso lo spazio sociale e pubblico per chi non è ancora in età di lavoro, ma di formazione. E l’aver dovuto adottare, come unica soluzione possibile data l’imprevedibilità degli accadimenti, la didattica a distanza, ha fatto emergere il problema delle disuguaglianze, in termini di risorse materiali e culturali, tra territori e gruppi sociali. La didattica a distanza, lo sappiamo, non è stata fruibile su tutto il territorio nazionale allo stesso modo.Sono stati moltissimi i minori ma anche gli studenti più grandi trovatisi a non avere un dispositivo o una connessione che permettesse loro di fruire adeguatamente di ciò che il sistema scolastico nei diversi gradi, università compresa, ha cercato di mettere a disposizione. Inoltre, pensando ai più piccoli, alle famiglie più svantaggiate, alle persone di origine straniera, ci sono stati tanti genitori che, al di là della disponibilità del dispositivo, non erano magari in grado (per mancanza di expertise o per l’assenza causata dal lavoro) di svolgere le procedure necessarie ad accompagnare figlie e figlie nella fruizione della didattica a distanza. Nonostante tutte le difficoltà, in questa esperienza abbiamo comunque imparato che alcune parti della didattica o della formazione possono essere utilmente svolte anche a distanza: si tratta però di attività complementari, che non possono essere considerate il “core” dell’attività pedagogico-formativa. Potrei fare l’esempio dei più “privilegiati”, che sono stati gli studenti universitari: privilegiati perché in quota minore nella popolazione studentesca, perché hanno fatto una scelta di formazione adulta e hanno un livello di maturità superiore che permette loro di fruire più facilmente anche della tecnologia. Eppure anche per loro c’è stata una perdita importante in termini di apprendimento: uno dei significati fondamentali dell’esperienza universitaria non è dato unicamentedall’apprendere contenuti che, in quanto tali, posso essere utilmente trasmessi anche a distanza, ma dall’imparare a porsi delle buone domande. Non intendo le domande giuste, come se ci fosse una lista, ma domande buone perché nascono dall’interazione tra i saperi di chi insegna, studia e ricerca in quegli ambiti, e dagli sguardi e dai punti di vista delle persone che frequentano l’università e ne fanno una comunità viva. Peraltro l’imparare a porsi le domande giuste può essere praticato in ogni ordine di scuola. In questo senso, se dovessi indicare di cosa sono stati privati principalmente gli studentidurante il lockdown, oltre al rapporto con i coetanei, con l’istituzione scolastica e con i docenti, mediato solo dalla forma a distanza, direi che è sicuramente mancata la possibilità di imparare a porsi le domande giuste. Che riguardano non il semplice apprendimento dei contenuti ma la visione, il senso, la progettualità. La grande perdita derivata da questa interruzione dell’anno scolastico in presenza, è stata, tra le altre, che sono mancate quelle condizioni per cui i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze delle diverse età fossero capaci di pensare insieme ai docenti ad una progettualità rispetto al futuro, cioè al pensare, attraverso i contenuti, se’ stessi nel futuro. Ed è questo un aspetto al quale bisognerà, anche con l’aiuto dell’orientamento, dedicare tantissimo tempo. La condizione di post-emergenza dà già di per se’ una sensazione di “assenza di futuro”; se a questa assenza di futuro si somma anche la mancanza dell’esperienza scolastica, si crea una condizione sulla quale esplicitamente investire per creare una “cultura del futuro”.

Ad oggi sembra che la sfiducia degli italiani nei confronti delle istituzioni e dell’Ue sia aumentata. Quali sono i fattori psicologici legati alla pandemia possono aver influito su questa percezione?
“Al di là di quelle che sono le posizioni politiche a favore o contro l’Europa, penso che la pandemia ci abbia posto tutti di noi di fronte ad un grande tema: la possibilità o meno di controllare e prevedere ciò che accade e ciò che accadrà; e la necessità di dover gestire le conseguenze anche meno desiderabili degli eventi. Da un lato, una parte della fatica degli italiani e delle italiane nei confronti dell’Europa forse deriva dal fatto che, talvolta, sentiamo le nostre migliori qualità non comprese o rese adeguatamente visibili. E infattirischiamo spesso di essere percepiti in maniera stereotipata e banalizzante. Le risorse, importantissime, di creatività e resilienza, che le italiane e gli italiani possiedono, ancora una volta si sono mostrate al loro meglio durante l’esperienza pandemica. Se si pensa a quanto siamo stati capaci, a fronte della scarsità di risorse e della loro ineguale distribuzione sul territorio, di rispondere adeguatamente a tutto quanto stava accadendo, e di farlo prima degli altri, si vede come abbiamo dimostrato ancora una volta di essere persone abituate a reagire proattivamente alle emergenze. Siamo, quindi, un popolo di persone che utilizzano le competenze creative e di resilienza per poter far fronte all’imprevisto, senza sottrarsi. Questa dimensione dovrebbe essere più valorizzata nel rapporto con l’Europa. Gli italiani e le italiane dovrebbero essere riconosciuti come persone capaci e resilienti, che usano la creatività per trovare buone soluzioni, talvolta soluzioni apparentemente introvabili, nei momenti di difficoltà. Si pensi alla pronta reazione dell’associazionismo, al lavoro fatto dai medici e dal personale sanitario, dalle persone che lavoravano nei supermercati o nei traporti e consegne, o allo spontaneismo legato ai contesti di quartiere, di caseggiato, di piccoli comuni. Tutto questo andrebbe fortemente valorizzato: se riconosciuto, infatti, permetterebbe di rapportarci con una idea di alterità nostra e dei nostri interlocutori europei migliore, rispetto a quella che più comunemente narrata”.

I fondi europei, quando arriveranno, saranno indirizzati a ridurre la disuguaglianza di genere, che si è accentuata durante l’emergenza della pandemia?
“Le posso rispondere con quello che io vorrei, cioè che i fondi europei fossero indirizzati a ridurre tutte le disuguaglianze in questa nazione, anche quelle intergenerazionali, territoriali e sicuramente a ridurre le disuguaglianze e a promuovere fortemente la parità di genere. Non penso semplicemente che la parità tra donne e uomini vada promossa perché anch’io sono una donna, ma perché conosco molto bene, dal punto di vista scientifico, gli effetti, in termini di ricadute positive,dell’avere raggiunto o meno la parità di genere in una nazione. Se si ragiona in termini europei, i Paesi che hanno l’indicatore di felicità al massimo livello – indicatore che considera una dimensione di benessere allargato molto importante – sono quelli nei quali la parità di genere è più elevata. Da essa, infatti, non deriva una banale inclusione delle donne, perchéle donne, non essendo una minoranza né storicamente né numericamente, non hanno necessità di essere incluse; deriva invece una molteplicità di sguardi, quindi una potenzialità di riuscire a costruire politiche, azioni e visioni molto più efficaci nel contemperare la stratificazione che la realtà presenta. Mi auguro che, in linea con le politiche europee 2020-2025, ci sia un’attenzione forte e sistemica ad azioni concrete, come quelle che noi abbiamo inserito nel piano Colao, per la promozione della parità di genere“.

La crisi economica causata dalla pandemia, probabilmente, diminuirà il numero di ragazzi che si iscriveranno o che continueranno a frequentare l’università. Già nel 2012, lei evidenziava che l’Europa chiese all’Italia di adattarsi alle medie degli altri paesi europei, in cui già il 40% della popolazione era laureata. Ora siamo nel 2020 e la percentuale probabilmente diminuirà ancora. Quali saranno le conseguenze di questo aumento di disparità, tra i giovani italiani ed europei, sulla società italiana?
“E’ molto probabile che diminuirà il numero delle immatricolazioni, cioè delle persone che in questa fase storica decideranno di iscriversi all’università. Quest’anno però è più comprensibile che in tutto il decennio precedente. Infatti, ci possono essere grosse difficoltà di tipo economico nelle famiglie che devono sostenere i figli all’università (per questo si sta lavorando ad ampliare la fascia di detassazione), difficoltà nello spostarsi dai luoghi di residenza verso atenei in altre regioni, o difficoltà legate alla capacità di progettare il futuro in una fase critica, ad esempio nelle famiglie che hanno perso la principale fonte di reddito o che hanno subito lutti importanti. In questo evento specifico, rispetto al quale gli atenei hanno risposto attivamente in vario modo, sia riducendo le tasse che potenziando le modalità online (anche attraverso convenzioni con gli operatori telefonici), il rischio è che comunque quanto accadrà si inserisca in una narrazione negativa. È quella a cui facevo riferimento quando mostravo che i dati sull’Italia ci parlano di una nazione molto arretrata dal punto di vista della formazione universitaria, in termini di numero e non di qualità. Vi è una narrazione imperante, nell’ultimo decennio, sulla quasi inutilità della formazione in termini di competenze. È come se l’accesso al mercato del lavoro fosse qualcosa che dipende da una serie di casualità o di legami, rispetto al quale possedere o meno competenze è abbastanza equivalente. Questa narrazione è negativa per due ordini di motivi. Da un lato, lega la formazione universitaria al trovare un lavoro. Che la formazione universitaria debba anche servire a trovare un lavoro, mi sembra non discutibile. Però, non ha come primo e unico obiettivo trovare un lavoro, bensì formare competenze di cittadinanza, quindi cittadini e cittadine. Tutti i dati ci dicono che quanto più è alto il livello di studio in media, tanto più i cittadini e le cittadine sono in grado di compiere scelte consapevoli, magari anche facendo errori, di cui però si rendono conto più precocemente, e a cui sanno rapidamente rimediare. Spero che il calo delle matricole sia inferiore a quello ipotizzato. Spero, soprattutto, che in Italia si ricominci a parlare della necessità di formarsi, che si accompagnino studenti e studentesse a scelte consapevoli per la costruzione di progettualità. Abbiamo sia competenze, che dispositivi che servizi di orientamento pubblici e specializzati, per fare scelte consapevoli. Per consapevoli, non intendo meri processi di abbinamento tra una persona e una presunta casella che la attende nel mondo lavorativo, ma la capacità di ragionare pensandosi in diversi stadi della propria professionalità e formazione, riuscendo ad immaginare come eventuali passioni o sogni possano essere tradotti in progetti realizzabili, a partire dalla considerazione delle risorse interne ed esterne che gli individui possiedono. Questo richiede un Piano nazionale di orientamento, fatto con le competenze scientifiche di cui disponiamo, e di cui vengano misurati sistematicamente gli impatti. Quindi, ancora una volta, un investimento in particolare sul futuro, visto che stiamo parlando delle giovani generazioni”.

Da esperta in psicologia, può farci una fotografia di qual è la situazione degli italiani in questo momento? Quali sono le conseguenze che ci porteremo dietro in futuro?
“I dati che abbiamo potuto raccogliere durante il lockdownnon sono stati tantissimi, perché c’erano problematiche relative ai dati sensibili, vista la legislazione sulla privacy. Però alcuni dati raccolti sono inerenti le situazioni di benessere o malessere della popolazione. Sono dati interessanti ed importanti che ci mostrano come ci sia stato l’acuirsi di criticità già presenti, in particolare in singoli soggetti che presentavano già delle fragilità di tipo psichico o psicologico e vivevano relazioni disfunzionale. Vi è stato ad esempio un aumento delle dinamiche di violenza, di genere, sui minori o assistita, derivanti dalla forzata condivisione del tempo e dello spazio quotidiano in contesti disfunzionali. Accanto a queste situazioni “acute”, c’è poi la dimensione che investe la popolazione nel suo complesso: un sentimento generale di spaesamento, che forse deriva anche da questa incertezza sulla possibilità o meno di tornare a una presunta precedente normalità, e dalla fatica relativa al cambiamento. Noi esseri umani viviamo infatti sempre nel difficile equilibrio tra l’essere interessati al cambiamento e l’essere resistenti al cambiamento: ecco la difficoltà relativa all’acquisizione di nuove abitudini e alla costruzione di una nuova normalità. L’elemento fondamentale da sottolineare, noto in tutta la letteratura scientifica precedente,indipendentemente da dati che siamo riusciti a raccogliere in pandemia, è che dopo tutti i grandi traumi collettivi, ad esempio quelli derivanti da enormi catastrofi ambientali, c’è un tempo, questo di post-emergenza, nel quale c’è un forte sentimento di incertezza e preoccupazione. Se questo forte e legittimo sentimento viene sostenuto da forme di supporto psicologico esteso, facilmente fruibili dalla popolazione, può facilmente evolvere, anziché in depressione generalizzata come si rischia di avere, in una dimensione di resilienzaindividuale e collettiva. L’incertezza degli individui può essere fatta evolvere verso dimensioni che ne promuovono la forza, sottolineando la capacità del singolo e dei suoi riferiemnti, dal punto di vista strettamente psicologico, di far fronte alle criticità, così come accaduto durante la pandemia. L’elemento sul quale sono molto ferma e, con l’Ordine nazionale degli Psicologi, stiamo lavorando molto, è mettere il più possibile a disposizione spazi per la narrazione dei propri bisogni o di quelli delle persone vicine. Si può infatti ragionare di resilienza all’interno di un sistema familiare, e cercare di supportare o di intervenire su un singolo componente, di solito quello che si sente più in difficoltà, ed insieme ottenere dal supporto al singolo una ricaduta benefica complessiva sull’intero sistema famiglia. Tra le azioni proposte nel Piano Colao c’è un percorso di quattro colloqui a fruizione gratuita offerto a persone direttamente o indirettamente impattate dal Covid-19, quindi ex pazienti Covid-19 o persone che hanno avuto lutti, pazienti, perdite o disastri economici all’interno del contesto familiare. L’idea è che, promuovendo la resilienza di un singolo individuo, questo vada a beneficio della resilienza complessiva delle relazioni che il singolo intrattiene, siano esse familiari, amicali o sociali”.

 

 

 

Questa intervista è stata rilasciata ad AffarInternazionali il 7 luglio 2020