Suggestioni letterarie per il rifiuto della pena di morte
Con questo articolo lo scrittore Antonio Salvati riprende e riassume i temi del suo libro “La Penna e la Forca” (Intrecci Edizioni), raccontando la pena di morte attraverso la lente della letteratura.
Letterati di un certo rilievo e non, soprattutto a partir dagli inizi dell’Ottocento, attraverso le loro opere hanno assunto posizioni contro la pena capitale. Per Jacques Derrida la storia della letteratura europea degli ultimi tre o quattro secoli “è contemporanea e indissociabile da una contestazione della pena di morte, da una lotta abolizionista ineguale, certo, eterogenea, discontinua, ma irreversibile e tendenzialmente mondiale, come storia congiunta, una volta in più, della letteratura e del diritto e del diritto alla letteratura”.
Difficile, ricordava Norberto Bobbio, trovare un testo filosofico contro la pena di morte. Le opinioni dei grandi classici della filosofia sono prevalentemente, monotonamente a favore. Da Platone e Aristotele fino a Kant e al nostro Benedetto Croce, dobbiamo registrare una lugubre continuità nel sostegno filosofico alla pena di morte, che accomuna trasversalmente filosofi cattolici come Sant’Agostino, San Tommaso e pensatori protestanti come Lutero e Calvino; utopisti come Moro e Campanella e giusnaturalisti come Hobbes, Locke e Rousseau; illuministi come Diderot e Montesquieu e Condorcet e idealisti come Fichte e Hegel; pensatori liberali come Constant e Mill e tanti altri.
Nella letteratura convergono tutti i grandi problemi suscitati nella mente umana dalla condizione mortale. Una cultura letteraria non posticcia, ma accurata e meditata, pone al centro l’esperienza umana e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di tutti gli aspetti, dalla virtù all’abiezione, della persona dell’uomo. La letteratura non vale nulla se non è, fondamentalmente, esperienza etica, rapporto col mondo e intensificazione dell’esistenza, riflessione continua sui valori che ci conservano umani.
Giustizia e letteratura
Con la letteratura si affrontano temi come Dio, la mortalità, il tempo, il significato della vita. Il romanzo possiede un alto valore conoscitivo. Dagli inizi dell’Ottocento inizia a diventare un genere egemonico, uno strumento di conoscenza e di verità.
Il romanzo classico – intendendo con esso tutte le forme narrative che hanno avuto nell’Ottocento la massima fioritura con Stendhal, Balzac, Dickens, Dostoevskij e Tolstoj – possiede un fascino immenso. Leggendo Il rosso e il nero, Guerra e pace, L’idiota, ci sentiamo profondamente toccati. Per chi si occupa di diritto e giustizia, queste letture non possono che esercitare un interesse irresistibile. Si tratta di letture e di topoi politico-filosofici, pregni di quesiti sfidanti per il diritto e nei quali tema della giustizia è una costante pietra d’inciampo, una domanda insistente, un traguardo tanto difficile fa raggiungere quanto decisamente necessario.
Filosofia e romanzo appartengono a due dimensioni diverse. Se può apparire eccessivo affermare che il romanzo arriva là dove non arriva la filosofia, non siamo lontani dal vero nel sostenere che la filosofia (e la disciplina giuridica) sarebbe più povera senza il romanzo e che tanti grandi romanzieri, anche inconsapevolmente, hanno saputo gettare uno sguardo totale sulla realtà, sul mondo. Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente l’esperienza umana. Dante e Manzoni, ha osservato Todorov, ci insegnano sulla condizione umana “quanto i più grandi sociologi o psicologi e che non esiste alcuna incompatibilità tra la prima e la seconda forma di sapere“.
La pena di morte
Può la letteratura calarsi nelle profondità di un abisso incommensurabile fino a far comprendere l’orrore della pena di morte? Il compito della letteratura non è quello di fornire risposte esatte, ma solo quello di cercare queste risposte con i mezzi che ha a disposizione. Ci sono cose che solo la letteratura può dire con i suoi mezzi espliciti. In un mondo sempre più dominato dai social è possibile utilizzare lo spazio letterario per interrogare sé stessi e il proprio tempo.
Credo che la letteratura riesca a soddisfare il bisogno e il desiderio degli studenti, quando opportunamente stimolati, di entusiasmarsi e perdersi dietro dei romanzi, magari coinvolgendo tecnicamente anche la rete. Se opportunamente interessati, anche quando non ne avessero piena coscienza, leggono i romanzi con entusiasmo. Con la ricerca e la sperimentazione delle emozioni, spesso il nucleo fondante del fatto letterario. Senza la letteratura siamo tutti più poveri. Quando i giovani non sono in possesso di adeguati strumenti linguistici significa che mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza. Manca la capacità di nominare le cose, mancano le emozioni e, conseguentemente, un meccanismo di controllo sulla realtà e su sé stessi.
Colpisce una convinzione di Nadine Gordimer: “La mia narrativa è più vicina alla verità di tutta la saggistica che scrivo”. Scrivere è spesso un dono e un talento innato. Il tipo di intuizione di uno scrittore, il potere della narrativa, dell’immaginazione di trasmettere al di là della superficie della vita qualcosa di più profondo, non è facile spiegarlo. Gli scrittori nascono con un’eccezionale capacità di osservazione: sin dall’infanzia guardano le persone, le cose, la vita, se stessi in modo incessante e piano piano cominciano a interpretare certi tratti, certe scene che non sono ovvie, che non sono in superficie. Procedono per intuizioni e così si riescono a creare personaggi che sembrano più reali delle persone note ai lettori.
La seconda parte dell’articolo verrà pubblicato prossimamente su AffarInternazionali