Il mancato incontro tra Pompeo e papa Francesco non è un fiasco per Trump
Il mancato incontro tra il segretario di Stato americano Mike Pompeo e papa Francesco non è causa, ma effetto. Cartina al tornasole per comprendere quale sia lo stato attuale dei rapporti tra Stati Uniti e Santa Sede. La cordiale chiacchierata con l’omologo vaticano, il cardinale Pietro Parolin, a conclusione del viaggio di Pompeo, serve soltanto al protocollo diplomatico: le distanze tra Washington e Oltretevere rimangono inalterate e il conflitto a bassa intensità tra i due imperi continua.
La visita, cominciata mercoledì 30 settembre, ha preso le mosse da un simposio sulla libertà religiosa organizzato dall’ambasciata statunitense presso la Santa Sede. Un’occasione, per Pompeo, per ribadire quanto da lui già scritto sulla rivista cattolica First Things, tra le principali voci critiche del messaggio pastorale e politico di Bergoglio: in nessun luogo al mondo la libertà religiosa è tanto in pericolo quanto in Cina. Proprio per questo, sottinteso, la Santa Sede e papa Francesco non devono rinnovare l’accordo con Pechino siglato ormai due anni fa e prossimo alla scadenza. Pena, la perdita di autorità morale da parte della Chiesa cattolica.
Una sferzata senza precedenti. Soprattutto se si considera che gli altri due relatori – il segretario per i rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Richard Paul Gallagher, e Parolin – rivestono cariche apicali nella Santa Sede. Sicuramente, però, una mossa non casuale. Una consistente fetta dell’elettorato cattolico americano – e della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, la United States Conference of Catholic Bishops – non vede nel papato di Francesco un pontificato culturalmente e politicamente vicino alla società statunitense. E, soprattutto, in grado di raccoglierne le sfide. Per questo, derubricare a semplice fiasco l’iniziativa di Pompeo a un mese dalle elezioni, significa non coglierne interamente la traiettoria.
Stati Uniti e Santa Sede di fronte alla Cina
L’intera visita del segretario di Stato americano al di qua e al di là del Tevere ha gravitato attorno al dossier cinese. Tanto nei meeting con il governo italiano, quanto in quelli con la controparte vaticana, Pompeo ha invitato alla cautela nei confronti di Pechino. La Repubblica popolare rappresenta, nella retorica dell’amministrazione di Donald Trump, il nemico numero uno. Pompeo stesso quest’estate ha parlato del Partito comunista cinese come una trentina di anni fa il presidente Ronald Reagan avrebbe potuto parlare dell’Unione sovietica: una minaccia per il mondo libero.
Analogie che l’ex membro del Congresso statunitense ha alimentato durante il simposio sulla libertà religiosa, richiamando più volte il nome di papa Giovanni Paolo II e invitando la Santa Sede a recuperarne l’esempio. Proprio durante il pontificato di Wojtyla, Stati Uniti e Vaticano riallacciarono i rapporti diplomatici – nel 1984, per volere di Reagan – e stabilirono una temporanea convergenza geopolitica, diretta contro Mosca e il blocco comunista. A quest’ultima Mike Pompeo ha richiamato Bergoglio, contestando il rinnovo dell’accordo con la Cina. Un accordo che il cardinale Parolin ha specificato essere di matrice intra-ecclesiale e che, dunque, nulla ha a che vedere con la politica.
Una precisazione di poco conto per l’Amministrazione Trump, decisa ad evitare che Pechino possa dare ulteriore smalto alla propria reputazione internazionale, già rafforzata dalla diplomazia sanitaria che la Cina ha messo in campo durante la pandemia globale.
Un risvolto elettorale
Difficile, però, immaginare che la manovra di Pompeo possa effettivamente far cambiar rotta alla Santa Sede. Che, tra l’altro, ha già annunciato di voler proseguire nel dialogo con la Cina. La missione del segretario di Stato, però, non può per questo dirsi totalmente fallimentare. I segnali, spesso, sono più importanti dei fatti. Soprattutto nel bel mezzo di una campagna elettorale.
La denuncia contro la Cina nella sua veste di nuovo “impero del male”, l’impegno per la libertà religiosa e la mancata udienza con papa Francesco possono costituire un buon biglietto da visita per parte dell’elettorato cattolico, avverso a Sua Santità. Del resto, lo stesso Bergoglio è consapevole che il cuore pulsante dell’opposizione politica e teologica al suo pontificato si trovi proprio negli Stati Uniti. Dopo un iniziale entusiasmo, scatenato dall’elezione di un papa del continente americano, le componenti conservatrici del cattolicesimo statunitense hanno cominciato ad esprimere dissenso verso il nuovo pontefice, disattento sulle tematiche bioetiche e più rivolto alle questioni socioeconomiche.
Per questo, la conflittualità con la Santa Sede potrebbe anche giovare a Trump. Non tanto per diversificare il proprio portafoglio elettorale, quanto per puntellare quell’elettorato cattolico – ed evangelico – che, quattro anni fa, lo preferì a Hillary Clinton. Voti che, per l’esito finale, furono decisivi.