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Fra popolo e governo

Oltre il mito della resilienza: un anno di resistenza nelle piazze del Libano

20 Ott 2020 - Flavia Fusco - Flavia Fusco

A distanza di un anno dalla thawra, in Libano è successo di tutto, eppure nulla pare essere davvero cambiato. Il 17 ottobre 2019 scoppiavano le prime proteste di quella che sarebbe diventata una lunga mobilitazione di piazza che continua ancora oggi e che, partendo dalla contestazione dell’imposizione di nuove tasse, ha allargato sempre di più il raggio dei suoi obiettivi, in primis politici.

Inquadrando lucidamente la catena di eventi che si sono succeduti in questo lungo anno nel più ampio schema di un sistema politico completamente scollato dalle esigenze della cittadinanza, la contestazione non si è fermata. Dopo cinque mesi complessivi di vuoto governativo, un esecutivo messo in piedi solo perché fallisse e due dimissioni di governo accompagnate da discorsi retorici altisonanti, il Libano pare essere paralizzato, di nuovo, in un immobilismo politico impossibile da sbloccare.

A un anno dalla protesta
Non sono bastate 2700 tonnellate di nitrato di ammonio esplose nel porto di Beirut, lo scorso 4 agosto, a smuovere la situazione, risolvendosi la tragedia nelle sole dimissioni dell’esecutivo, arrivate tra l’altro troppo tardi, e lasciando la cittadinanza senza risposte e senza giustizia. Nonostante le richieste dal basso e le pressioni di organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch, non è stata istituita ad oggi una commissione di inchiesta indipendente e credibile. I parenti delle quasi 200 vittime dell’esplosione e i cittadini della capitale si sono dovuti accontentare di un’investigazione governativa che, anche quando è passata a un organo giudiziario (tutt’altro che indipendente), non ha fatto trapelare alcuna informazione che potesse vagamente assomigliare alle necessarie risposte che le autorità devono ai propri cittadini dopo un simile evento.

Ironicamente, a seguito dell’ultimo tentativo di formare un governo affidato al diplomatico Mustapha Adib e andato in fumo dopo un mese, è proprio il nome di Sa’ad al-Hariri che torna a circolare come papabile nuovo primo ministro incaricato, nonostante le consultazioni siano state rimandate al 22 ottobre. In un tempismo agghiacciante che cerca di riavvolgere il nastro, i rumor su Hariri sembrano voler cancellare un anno di contestazione, annullando il traguardo delle dimissioni del magnate libanese rassegnate dopo appena 12 giorni di proteste e viste dalle strade come il primo significativo passo verso la destituzione dell’intera classe politica, a partire dal primo volto noto dell’establishment. “Killon ya’ni killon“, “tutti significa tutti”.

Mentre i soliti noti del regime ragionano sul prossimo nome che dovrà continuare a riprodurre logiche e dinamiche in grado di tenere in piedi il sistema settario e clientelare che li lega tutti nella loro polarizzazione, le piazze non si sono mai svuotate del tutto. Anche durante i mesi di lockdown la mobilitazione si è rallentata ma mai arrestata, per tornare con vigore a seguito dell’esplosione nel porto di Beirut che ha fornito un triste promemoria della natura strutturale del malgoverno libanese e dell’assenza dello Stato.

La forza del popolo libanese
A riempire le strade fantasma dei quartieri colpiti dall’esplosione, sono state infatti organizzazioni della società civile, associazioni cittadine, collettivi e volontari, che hanno da subito aiutato a cercare le persone tra le macerie, accompagnare i feriti in ospedale o semplicemente portare acqua e cibo sul posto. Anche durante i mesi più duri della pandemia, è dal basso che sono venute iniziative significative, con reti solidarietà e aiuto-reciproco che hanno rappresentato l’unica vera alternativa per le classi più marginalizzate.

Negli anni, proprio questa capacità di rimboccarsi le maniche e darsi da fare nonostante tutto non ha fatto che alimentare il mito della resilienza del popolo libanese, un valore cardine di fin troppi progetti di cooperazione internazionale che, nelle parole di chi questa narrazione distorta dell’affrontare le crisi la vive più da vicino, altro non è che una celebrazione della “sopravvivenza a spese della giustizia, il sintomo retorico e simbolico della normalizzazione dell’ingiustizia“.

A questa “trovata di marketing per un sistema politico ed economico in crisi, che produce crisi ulteriori per sostenersi” si contrappone però la resistenza della cittadinanza e della società. Le iniziative dal basso, le reti di solidarietà e di aiuto reciproco nate e/o rafforzatesi a partire dalla mobilitazione dell’ottobre 2019 non sono semplicemente un esempio della capacità dei cittadini di rispondere e riprendersi da uno shock assorbendolo e trovando un modo per andare avanti.

Quella messa in moto un anno fa ha piuttosto assunto in maniera sempre più chiara i connotati di una resistenza cittadina, di una mobilitazione organizzata che non aspira semplicemente all’elasticità necessaria per non piegarsi alle crisi, ma a sovvertire il sistema che di quelle crisi si nutre. Si tratta di pratiche quotidiane di resistenza ordinaria che mirano al cambiamento partendo dalla realtà di tutti giorni e dalle esigenze dei cittadini ignorate da uno Stato che non c’è.

Non tutto è fermo nel Paese dei cedri
La recente notizia del successo dei candidati indipendenti alle elezioni della Lebanese American University (che hanno vinto 9 seggi su 9 nel campus di Beirut e 4 in quello di Byblos) è una vittoria importante che la piazza della thawra e la resistenza cittadina da essa scaturita si portano a casa dopo un anno di contestazioni. Le elezioni universitarie, infatti, vengono viste come particolarmente indicative rispetto agli orientamenti politici della grande maggioranza della popolazione, e, se è vero che il movimento di protesta iniziato un anno fa non è riuscito a formulare un progetto politico condiviso dalle diverse anime della piazze (tra cui soprattutto all’inizio figuravano anche sostenitori dell’establishment), è pur vero che la spinta verso un cambiamento radicale è più che mai forte.

Anche se in Libano sembra tutto fermo, infatti, è sufficiente andare appena sotto la superficie di questa paralisi per scovare l’energico dinamismo della società civile che, lungi dall’essere una categoria normativa astratta, è fatta di cittadini che con le loro pratiche di resistenza più che di resilienza quotidiana, reclamano, ancora, un cambiamento politico e diritti di cittadinanza.