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PALAZZO DI VETRO

Le ragioni del conflitto nel Nagorno-Karabakh

6 Ott 2020 - Francesco Semprini - Francesco Semprini

Il nome Nagorno-Karabakh, letteralmente “giardino nero montuoso”, è una commistione di parole turche e russe. La regione che risponde a tale nome è un’area del Caucaso racchiusa tra i confini dell’Azerbaigian, occupata dall’Armenia e circondata da una zona cuscinetto militarizzata. Ed è anche il motivo di contesa tra Yerevan e Baku sfociato in una guerra durata circa cinque anni, tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, e mai realmente terminata.

Una sorta di conflitto a bassa intensità che alterna fasi di quiete apparente, tensioni, schermaglie e combattimenti veri e propri come quelli iniziati il 27 settembre. Figli di sviluppi interni e influenze esterne che vedono protagonisti di riferimento, in quest’ultimo frangente, proprio Russia e Turchia.

La ripresa dei combattimenti, dicevamo, è conseguenza di sviluppi interni ai due Paesi che rendono lo scontro assai più complesso rispetto alla guerra dell’aprile 2016, durata solo quattro giorni. Più complesso e quindi intrecciato da dinamiche destinate a renderne difficile la cessazione.

Le ragioni di Yerevan e quelle di Baku
Nel caso dell’Armenia, il premier Nikol Pashinyan è stato protagonista nel 2019 di una virata di impronta populista che ha fatto del Nagorno-Karabakh una bandiera politica fomentando il sentimento popolare. Complice il fatto che lui stesso fatica a tenere a bada il clan del Karabakh, che ha un peso importante nelle vicende del Paese. C’è stato quindi un’inasprimento progressivo da parte del governo sull’argomento cadenzato da quelle che, alcuni osservatori, hanno definito “provocazioni”.

La cerimonia di insediamento del presidente dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, Arayik Harutyunyan, è stata ad esempio celebrata a Shusha, capoluogo della minoranza azera del Karabakh. Ovviamente, dopo l’occupazione armena del 1992 non vi è più un cittadino azero, ma la città è considerata tradizionalmente azera. Un altro episodio visto come provocazione da Baku è stata la costruzione di una grande arteria di collegamento tra Yerevan e Stepanakert, capitale del Nagorno-Karabakh, condannata anche dal Parlamento europeo. “La decisione di costruire questa autostrada è stata presa senza il consenso delle autorità competenti dell’Azerbaigian e in violazione del diritto internazionale”, recita una dichiarazione congiunta del 15 giugno scorso di Marina Kaljurand, Traian Băsescu e Željana Zovko, membri del ramo legislativo dell’Unione europea.

Sul lato interno azero invece, due fenomeni hanno agevolato la deriva bellica. Il primo è stato il Covid-19 e il crollo dei prezzi del petrolio (al netto della ripresa degli ultimi mesi), il secondo un discontento sociale crescente. Il quale ha trovato terreno fertile in questa ferita aperta del Karabakh che è sempre stata usata dagli Aliyev – prima dal padre Heydar e ora dal figlio Ilham, presidente dell’Azerbaigian – per gestire il consenso interno. Uno strumento politico che però è divenuto un’arma a doppio taglio perché la ferita non si è ancora rimarginata con lo status quo totalmente schiacciato a favore degli armeni che non hanno interesse a cambiarlo, e gli azeri che non possono accettarne il mantenimento.

La roadmap
Le risoluzioni delle Nazioni Unite numero 822, 853, 874 e 884, tutte del 1993, hanno stabilito che il Nagorno-Karabakh è una regione contesa a maggioranza etnica. Ma i sette distretti attorno a tale regione sono azeri e pertanto nel loro caso quella armena è un’occupazione vera e propria.

Le “roadmap” per la pace individuate a livello internazionale prevedono tutte la restituzione immediata di almeno cinque di questi distretti, ovvero tutti tranne quelli che assicurano i legami tra Karabakh e Armenia, ossia la continuità territoriale. I negoziati trilaterali portati avanti da Pashinyan non hanno dato risultati come del resto è accaduto anche con i suoi predecessori e questo mette sotto pressione Aliyev dal momento che deve dimostrare ai suoi elettori di essere pronto a dare una svolta a un cammino che non porta da nessuna parte. Oltre al fatto che nel Paese si è registrato un crescente malcontento economico e un risveglio nazionalistico pesante con manifestazioni di folle oceaniche. E così quando a luglio si sono verificate i primi incidenti, in quel caso non nella regione contesa ma al confine tra Armenia e Azerbaigian, nelle piazze si è riversata una marea di manifestanti determinati a dar sfogo la propria rabbia.

Ne deriva che questa escalation di inizio autunno fosse prevista o finanche pianificata, con il chiaro intento da parte della leadership azera di inviare un segnale. La conferma, dicono gli osservatori strategici, è nel fatto che dopo lo scoppio delle ostilità il fronte di lotta si è esteso velocemente all’intera linea di contatto.

Questo articolo è il primo di tre approfondimenti sul Nagorno-Karabakh di Francesco Semprini su AffarInternazionali.

Leggi qui la seconda parte.