La Nuova Zelanda di Jacinda Ardern verso un monocolore rosso?
Sabato 17 ottobre la Nuova Zelanda andrà al voto per le elezioni legislative a tre anni dalla vittoria della prima ministra Jacinda Ardern, che nel frattempo si è trasformata in un brand progressista a livello globale. Mentre sui cartelloni di tutto il mondo il volto di Jacinda affianca Greta Thunberg come bandiera del nuovo movimento progressista giovanile, cerchiamo di capire com’è andata in questi quattro anni e cosa ci si aspetta dal voto.
Negli ultimi decenni la Nuova Zelanda è stata un Paese abbastanza aperto, soprattutto visto il facile paragone con il vicino conservatore: l’Australia. Lo scenario politico neozelandese è però sempre stato abbastanza silenzioso. I premier entravano nelle prime pagine della stampa internazionale solo durante la coppa del mondo di rugby, quando accompagnavano in campo gli All Blacks.
Il sistema elettorale è forse il tratto caratterizzante del Paese. A differenza dell’Australia, infatti, la Nuova Zelanda ha un sistema misto che però favorisce la rappresentatività sulla governabilità. Il Paese ha una sola camera cui il primo ministro chiede la fiducia.
Particolarità dei collegi elettorali
Ogni elettore neozelandese ha la facoltà di votare per due sistemi in una scheda. Nella parte sinistra può scegliere tra i candidati del proprio collegio uninominale, quindi un sistema maggioritario, mentre sulla destra ha le liste dei partiti che corrono nel sistema proporzionale su tutto il territorio nazionale. I 120 seggi del Parlamento vengono assegnati però solo in base alla parte proporzionale; i posti assegnati dal sistema uninominale vanno infatti a sottrarsi dal precedente. È quindi di fatto un sistema proporzionale che ha effetti maggioritari solo grazie a due requisiti che tutti i partiti devono avere per entrare in Parlamento: una soglia del 5% e almeno la vittoria di un collegio uninominale.
La Nuova Zelanda però ha un’altra particolarità. Il Paese ha infatti un distretto elettorale dove possono votare solo i maori. Questa previsione proviene dal passato coloniale e razzista di Wellington. Sono stati molti i tentativi di riforma di questo sistema elettorale, ma nessuno ha mai avuto successo. Per cambiarlo infatti sarebbe necessaria una maggioranza qualificata molto alta e vi è anche una paura marcata di una parte di maori di essere condannati all’irrilevanza se si togliesse questa norma.
Grazie a questi due punti è facile spiegare come il partito laburista di Ardern, nel 2017, pur avendo preso meno voti del partito di centro-destra è riuscita a raggiungere, con alleanze varie, i 61 voti necessari per la fiducia. L’attuale maggioranza è rappresentata dai laburisti, dai Verdi e dal New Zealand First, un partito populista di destra che ha deciso di supportare la Ardern per rompere con il vecchio establishment più che di vera condivisione. I partiti di maggioranza sono firmatari di un accordo di 15 punti da portare a termine entro la fine della legislatura.
Il fattore Ardern
Jacinda Ardern è la vera protagonista di queste elezioni. In tre anni la premier ha rivoltato il Paese dal punto di vista delle politics, più che delle policy. La leader laburista è planata sul Paese dei Kiwi trasformandolo nel suo feudo, come si vede anche dai sondaggi che la danno in costante vantaggio.
Ma la rivoluzione, per adesso, è stata praticamente solo formale. La prima ministra si è occupata principalmente di aprire un Paese che tendenzialmente era ancora negli anni ‘90 e che durante gli anni di governo dei Nationals di centro-destra non si era veramente modernizzato. Ardern ha risolto questioni legate ai diritti civili, ha iniziato a curare l’aspetto ambientale come principale area di policy, riducendo emissioni e cambiando le linee industriali. Viste le difficoltà interne alla coalizione, molto diversificata, il governo però è andato a rilento e si è presto ritrovato a dover gestire varie crisi totalmente inaspettate. Prima la sparatoria nella moschea di Christchurch e l’eruzione esplosiva del vulcano Whakaari su White Island.
Nel picco della pandemia a maggio, il consenso della prima ministra era valutato intorno al 70%, con i partiti di opposizione relegati a un sostegno sotto la doppia cifra.
La sfidante e i possibili alleati
A sfidare Ardern nelle elezioni del 17 ottobre vi saranno numerosi candidati. Judith Collins dello storico partito di centrodestra National Party, al governo nei 10 anni prima di Ardern, è la vera avversaria. Estremamente religiosa, Collins si sta battendo per cercare di risultare il più diversa possibile dalla prima ministra in un universo politico come quello neozelandese in cui è più facile vedere le somiglianze che le differenze. Collins sembra però non essere riuscita a stare al passo della molto più popolare Ardern.
Collins ha avuto grandi difficoltà in tutta la campagna elettorale, che l’ha vista sempre inseguire nei sondaggi. La leader del centrodestra è stata accusata di usare strumentalmente la provenienza del proprio partner, nato nelle Samoa, per fregiarsi di una mezza origine indigena. Questa scelta ha attirato grandissime critiche dalle comunità maori e samoane che si sono sentite prese in giro. Superato questo scandalo, Collins ha dovuto affrontare un’altra bega, questa volta interna al suo partito. La candidata si è inventata alcune ricette politiche durante l’ultimo dibattito ed è quindi stata sbugiardata dagli avversari interni. La candidata dei Nationals sembra essere credibile solo dal punto di vista economico, ma va malissimo tra giovani, donne e persone non religiose.
Subito dopo Collins vengono i leader dei partiti minori. Il nazionalista leader del New Zealand First Winston Peters, attualmente vicepremier e ministro degli Esteri nel governo Ardern, è in grande difficoltà. Non corre buon sangue tra lui e la premier, viste le idee divergenti sul tema delle migrazioni. La ministra vorrebbe aprire quasi tutto, mentre lui vorrebbe chiudere il Paese. Ma durante questi tre anni la corsa è stata nettamente vinta dalla leader dei laburisti. Il Paese ha aperto con attenzione le frontiere e tutto questo ha inficiato sull’immagine nazionalista di Peters e sulla sua percentuale ai sondaggi, intorno al 2%.
Gli altri tre sfidanti sono cruciali ma minori. I due leader dei verdi James Shaw, attuale ministro ai Cambiamenti climatici, e Marama Davidson, di origine maori, sembrano essere più degli alleati che degli avversari di Ardern. Hanno già detto che in caso il Labour non dovesse avere i numeri per governare forniranno il proprio supporto, sempre che basti. I temi degli ambientalisti vanno molto forte in Nuova Zelanda, ma inevitabilmente soffrono la presenza della premier che sta chiaramente attirando il voto progressista. L’ultimo sfidante è invece David Seymour del ACT, un partito dei consumatori, liberale e libertario che combatte per un minore intervento dello Stato in economia, ma va malissimo nei sondaggi. Attualmente ha un solo seggio in parlamento.
I sondaggi
Lo scenario è abbastanza chiaro: i laburisti vinceranno queste elezioni, ma bisognerà capire come. Fino a qualche settimana fa il Paese era praticamente sicuro di vedere un governo monocolore, per la prima volta nella sua storia. Ardern era infatti data intorno al 57%, 20 punti davanti ai Nationals. L’ultimo sondaggio di pochi giorni fa però l’ha vista scendere in una forbice che va dal 47% al 53%. Collins è intorno al 32%, mentre al 6% ci sono i Verdi e al 2% c’è New Zealand First. All’interno del distretto maori il partito etnico maori è sondato intorno al 26%, tre punti sotto il candidato laburista Tamati Coffey, che è l’unico candidato di un partito non maori che ha qualche speranza di strappare il seggio.
La maggioranza della Ardern passerà molto dal distretto maori e dalle percentuali degli altri partiti, se New Zeland First non dovesse entrare in Parlamento e il Labour dovesse vincere nel distretto maori aumenterebbero le possibilità di vedere una maggioranza monocolore rossa in Nuova Zelanda.
A cura di Emanuele Bobbio, fondatore e caporedattore Oceania de Lo Spiegone
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