Il ritorno di Hariri rassicura i mercati ma infiamma la piazza
“Saad Saad Saad, non sognarlo neanche di tornare al governo“. Così lo scorso mercoledì sera un gruppo di manifestanti esprimeva la propria netta opposizione rispetto a un possibile nuovo governo Hariri dirigendosi verso l’abitazione del magnate libanese, che potrebbe diventare premier per la quarta volta in meno di dieci anni.
Pure a dicembre dell’anno scorso, in un Libano senza governo e con fiumi di persone per le strade da quasi due mesi, veniva intonato lo stesso identico slogan nelle piazze in protesta, ma in quelle circostanze la pressione dal basso riuscì a scongiurare il ritorno di Hariri. Stavolta invece, il pomeriggio del 22 ottobre, proprio il leader del Future Movement ha ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo, confermando le indiscrezioni delle scorse settimane e rendendo l’eventualità di un Hariri quater quasi inevitabile.
Per quanto sarà molto complicato riuscire a formare l’esecutivo tecno-siyasiyyah (tecnico-politico) di cui parla il primo ministro incaricato e per quanto ciò richiederà probabilmente molti mesi (l’ultima volta Hariri ne ha impiegati ben otto), alla fine con ogni probabilità si riuscirà a formare una squadra di governo a cui, ancora, verrà affidato il compito di impedire che il Libano faccia un ulteriore, definitivo passo verso il baratro.
Numeri e opposizioni
Con una maggioranza risicata di 65 voti su 120, Hariri sembrerebbe avere un supporto più fragile dei precedenti primi ministri designati in questo ultimo anno di mobilitazione, Hassan Diab e Mustafa Adib, che avevano ottenuto rispettivamente 69 e 90 voti. Tuttavia, come il tentativo fallimentare di formare un governo del diplomatico Adib mostra palesemente, i numeri presi da soli, specialmente nella muhasasa tayfiyyah libanese, contano poco.
I “no” alla votazione di giovedì scorso non hanno rispettato la classica contrapposizione politica delle alleanze dell’8 e del 14 marzo che, originata dalla Rivoluzione dei Cedri del 2005, ha ormai perso ogni significato. Ad opporsi alla nomina di Hariri sono stati principalmente Hezbollah, Forze Libanesi e Free Patriotic Movement.
Proprio Gebran Bassil, leader del Free Patriotic Movement nonché genero del presidente Micheal Aoun, rendendosi conto di non riuscire ad assicurarsi un ruolo in un eventuale esecutivo a guida Hariri anche dopo aver chiesto al suocero di rimandare le consultazioni per guadagnare tempo, aveva espresso già prima del voto in parlamento la propria contrarietà, sostenendo fosse invece necessario che un governo tecnico fosse presieduto da un esperto sganciato dal panorama partitico libanese. Hezbollah, dal canto suo, ha preferito esprimere un “no” tattico, nonostante fosse tra le forze politiche maggiormente entusiaste del ritorno di quel nome che con ogni probabilità gli consentirà di rimanere a galla del sistema politico libanese che riproduce se stesso riciclando volti e strategie note, senza però esporsi eccessivamente.
Supporto internazionale
Se i numeri non sono tutto e allo scorso tentativo è bastato l’impuntarsi di Hezbollah e Amal sul ministero delle finanze a far crollare la prospettiva di un nuovo esecutivo guidato da Adib, stavolta potrebbe essere invece il solido supporto internazionale di Saad Hariri a garantire la formazione di un governo nonostante i soli 65 voti ottenuti. Non a caso le sue prime parole nel ruolo di primo ministro designato si sono riferite alla roadmap francese che il presidente Emmanuel Macron ha messo appunto dopo l’esplosione del porto di Beirut e che dovrebbe consentire l’accesso alle risorse di cui il Libano ha disperatamente bisogno.
La vicinanza all’Arabia Saudita, poi, pure consentirebbe al Libano di Hariri di poter contare su quei fondi su cui il governo Diab, ritenuto troppo vicino a Hezbollah, non era riuscito a mettere le mani. Anche i negoziati con il Fondo monetario internazionale, cominciati a maggio ma arenatisi lo scorso luglio, avrebbero una possibilità in più di sbloccarsi. La notizia, in ogni caso, è stata accolta positivamente dai mercati che segnalano una ripresa del valore della lira negli ultimi giorni, dopo i picchi da iperinflazione dello scorso luglio.
Poco tempo rimasto
Mentre i mercati e diversi partner internazionali guardano positivamente all’incarico del magnate libanese, sono in tanti a non credere che il volto noto di Hariri, applicando ricette economiche altrettanto note e tutt’altro che indolori, possa salvare il paese dal collasso, domandandosi piuttosto chi sarà a beneficiare della fantomatica stabilità che la formazione di un governo assicurerebbe. Al di là del nome, anche le tempistiche lasciano perplessi: allo stato attuale il Libano non può reggere una lunga attesa e nelle parole dello stesso primo ministro incaricato “il tempo sta per scadere“.
Mentre la pandemia torna ad accelerare, le ultime proiezioni della Banca Mondiale prevedono una contrazione del Pil superiore al 19%, mentre il Fondo monetario internazionale stima che il prezzo medio dei principali beni di consumo sarà aumentato del 145% a fine anno rendendo ancor più drammatico il dato relativo alla diffusione della povertà in Libano, che secondo l’Unescwa supera il 55%, e alla disuguaglianza socio-economica, con oltre il 70% della ricchezza nazionale detenuta da appena il 10% della popolazione.
In tale drammatico contesto, mentre il tentativo contro-rivoluzionario dell’establishment libanese cerca di portare le lancette indietro di un anno, il “pugno della rivoluzione” a piazza dei Martiri è lì, di nuovo, a ricordare l’altra faccia del Libano. Bruciato l’anno scorso dai sostenitori di Hezbollah e pochi giorni fa da quelli di Hariri, il simbolo della voglia di cambiamento che dal 17 ottobre dell’anno scorso continua a infiammare il Paese che non si arrende, è tornato ad ergersi ancora. Stavolta l’installazione dell’attivista Tarek Chehab è ancora più grande, a segnalare con forza che un’alternativa, sia pure “in costruzione” e poco delineata per il momento, c’è e non si trova nei palazzi di potere ma in piazza dei Martiri.