Il Kuwait ha un nuovo emiro ma già cerca un erede
Con la morte del 91enne emiro del Kuwait, Shaykh Sabah al-Ahmed Al-Sabah, scomparso negli Stati Uniti lo scorso 29 settembre, si chiude davvero un’era nel Golfo: nessuno degli attuali sovrani era in carica quando venne fondato, nel 1981, il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg).
La notizia non giunge improvvisa: le condizioni di salute dell’emiro si erano aggravate costringendolo a due ricoveri oltreoceano in un anno. Come in Oman, la successione è stata quindi morbida poiché preparata: il nuovo emiro è il principe ereditario già nominato dal defunto sovrano, l’83enne fratellastro Shaykh Nawaf al-Ahmed Al-Sabah, che da luglio fungeva da reggente. Proprio l’età avanzata del neo-emiro sposta l’attenzione sulla nomina del nuovo principe ereditario: ciò potrebbe riaprire i dissidi nella famiglia, sebbene il nome debba poi essere approvato a maggioranza dall’Assemblea nazionale.
Nelle monarchie del Golfo, il cambio di leadership s’impone, spinto da ragioni anagrafiche: il sovrano politicamente più longevo dell’area Ccg è ora il 70enne re del Bahrein, Hamad bin Isa Al-Khalifa, in carica dal 1999 e, negli ultimi sette anni, sono cambiati ben quattro sovrani su sei, tra un’abdicazione e tre decessi (Qatar, Arabia Saudita, Oman, Kuwait). Un dato che in parte spiega perché l’apertura politica verso Israele non sia più un tabù, nonostante persistano cautele e resistenze (su tutti proprio il Kuwait): la quarta e ultima guerra arabo-israeliana fu combattuta nel 1973.
In un Medio Oriente in rapidissima trasformazione – in cui crescono i nazionalismi e si riduce il già sgualcito senso di solidarietà tra arabi – nuove classi dirigenti guardano con gli occhi della strategia alla questione israelo-palestinese e, un po’ meno, con quelli della storia.
Profilo e sfide del nuovo emiro
Emiro dal 2006, Shaykh Sabah, già ministro degli Esteri e poi primo ministro (1963-2003), aveva grandi doti diplomatiche: la mediazione kuwaitiana, più formale di quella omanita, è l’unica riconosciuta nella disputa fra Arabia-Emirati-Bahrein e Qatar. Il Kuwait ospitò i colloqui Onu per lo Yemen (2016), organizzò una conferenza per la ricostruzione dell’Iraq (2018) e ha sempre sostenuto il dialogo con l’Iran.
Ora Shaykh Nawaf, politico di lunga esperienza, dovrebbe porsi in sostanziale continuità con il suo predecessore, soprattutto in politica estera: già ministro di Interni e Difesa, il nuovo emiro è stato anche vicecapo della Guardia Nazionale, organo militare d’élite.
Lo speaker dell’Assemblea parlamentare, Marzouq Al Ghanim, ha dichiarato, durante la cerimonia di insediamento, che Shaykh Sabah garantì la “sicurezza” del Kuwait in una regione conflittuale, mentre Shaykh Nawaf lo guiderà alla “prosperità“. Ma l’espressione-chiave, pronunciata anche in Parlamento, è invece “lotta alla corruzione“, il tema più sentito dai kuwaitiani che voteranno per le elezioni legislative entro il 2020. Già durante le rivolte arabe del 2011, in centinaia manifestarono contro il governo accusato di corruzione dopo i molti scandali per inchieste e tangenti, arrivando persino a sfidare la repressione della polizia assaltando il Parlamento al grido di “entriamo nella casa popolare”.
Principe ereditario cercasi
Come per re Salman in Arabia Saudita (oggi 85 anni, in carica dal 2015), il regno di Shaykh Nawaf potrebbe essere di transizione fra l’élite che ha guidato il Paese negli ultimi decenni e una generazione più giovane. La figura più chiacchierata della politica kuwaitiana è uno dei due figli del defunto emiro, Nasser Sabah al-Ahmed Al-Sabah, 72 anni, già ministro della Difesa e vice primo ministro.
Uomo dell’establishment capace di cavalcare il sentimento anti-Palazzo, Nasser guida gli sforzi di diversificazione economica dell’emirato (“Vision 2035”): per profilo, temperamento politico e mega-progetti, somiglia al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud. Ma per il ruolo di principe ereditario sono in corsa anche l’ex primo ministro Shaykh Nasser al-Mohammed (79 anni) e il vicecapo della Guardia Nazionale Shaykh Meshaal al-Ahmad (81 anni).
Settarismo contro gli stranieri
Le prossime elezioni legislative diranno qualcosa in più circa gli umori profondi dei kuwaitiani: le ultime tornate sono state boicottate da alcune società politiche (i partiti sono vietati in tutto il Ccg) e hanno premiato molti candidati indipendenti.
Nonostante la compresenza di sunniti e sciiti (il 30% della popolazione), il settarismo non è al momento un fattore di scontro, anche se perdurano le disuguaglianze. La principale società politica sciita, la National Islamic Alliance, è su posizioni pragmatiche e filo-governative. Dopo l’attacco del sedicente Stato Islamico alla moschea sciita Imam Sadeq della capitale (27 morti), nel 2015, fu proprio l’emiro a recarsi lì in segno di unità nazionale. Dall’altro lato, l’Islamic Constitutional Movement, braccio politico della Fratellanza Musulmana dal 1991, punta ormai a riforme politiche e contrasto alla corruzione, attirando nella propria orbita anche il segmento più attivo dei salafiti.
Piuttosto, la nuova linea di faglia è diventata quella tra nazionali (30%) e residenti stranieri (gli expatriates, quasi il 70% della popolazione totale). Infatti, la discesa del prezzo del petrolio e la crisi legata a Covid-19 ha acuito l’insofferenza di molti kuwaitiani verso i lavoratori stranieri, soprattutto asiatici, necessari fin qui per il settore privato: proprio nei loro affollati complessi residenziali è dilagata l’infezione da coronavirus. L’Assemblea Nazionale studia quote per i lavoratori stranieri (la comunità indiana non dovrà eccedere il 15% della popolazione secondo un progetto di legge già approvato in commissione) e il primo ministro ha dichiarato che gli expatriates non dovrebbero essere più del 30% degli abitanti del Kuwait. Così, lotta alla corruzione e rapporto con gli stranieri sono oggi il fulcro del dibattito pubblico.
Rapporti con Israele
Il Kuwait “sarà l’ultimo Paese a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele“, virgolettava giorni fa il quotidiano kuwaitiano al-Qabas citando un insider. Il piccolo emirato accolse molti palestinesi negli anni Sessanta e Settanta, espulsi a migliaia dopo l’invasione da parte dell’Iraq (1990) poiché Yasser Arafat si schierò con Saddam Hussein: oggi ne rimarrebbero circa 70 mila.
Con un Parlamento e una società civile organizzata, Kuwait City ha interesse, anche con un nuovo emiro, a procrastinare il più possibile l’eventuale normalizzazione: 37 parlamentari hanno già firmato affinché il governo rigetti l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele.
Per organizzazione istituzionale e società civile, solo il Bahrein è secondo al Kuwait: ma a differenza di quest’ultimo, il Bahrein a maggioranza sciita dipende per finanze e sicurezza dall’Arabia Saudita, dunque non può esprimere una politica autonoma ma solo il riflesso della linea saudita. Proprio quell’autonomia, pur nella salda alleanza con Riyadh, che il nuovo emiro del Kuwait è chiamato a confermare.