IAI
La contesa sullo stato di diritto

Dal “Recovery Fund perverso” alla libertà accademica: i fronti aperti da Orbán in Europa

30 Ott 2020 - Massimo Congiu - Massimo Congiu

Il criterio di ripartizione del Recovery Fund è stato da subito criticato pesantemente dal primo ministro ungherese Viktor Orbán che l’ha trovato ingiusto. Ingiusto e costruito in modo tale da favorire i Paesi membri occidentali più ricchi a svantaggio di quelli dell’Europa centro-orientale; addirittura perverso.

Successivamente, il premier danubiano ha aggiunto di respingere il nesso tra il Recovery Fund e il rispetto dello stato di diritto. A suo modo di vedere, nessuna entità esterna, Paese o organismo internazionale, ha l’autorità di valutare il rispetto del diritto in uno Stato sovrano.

Orbán sostiene in patria di portare avanti una lotta per la libertà del suo Paese e chiede agli ungheresi di sostenerlo. L’obiettivo, secondo la retorica del premier, è preservare l’Ungheria dalle ingerenze di multinazionali e organismi internazionali politici ed economici che, a suo dire, vorrebbero fare dello Stato danubiano una colonia priva di identità e aspirazioni nazionali.

Il caso della Central European University
La propaganda governativa indica inoltre in George Soros uno dei principali – se non il principale – nemico del Paese. Proprio aspetti riguardanti l’attività di Soros sono al centro della recente sentenza della Corte di giustizia europea che ha dichiarato contraria al diritto europeo e alla libertà accademica, la legge ungherese del 2017 che ha portato al trasferimento da Budapest a Vienna del quartier generale Central European University (Ceu).

Fondata dal magnate americano di origine ungherese nella prima metà degli anni ’90, la Ceu è entrata nel mirino del governo ungherese che, con la legge in questione, ha imposto alle università straniere presenti in patria di avere una “reale attività” nei rispettivi Paesi d’origine e di operare nell’ambito di accordi bilaterali da stringere con i medesimi. Non potendo soddisfare queste condizioni, la Ceu ha dovuto cambiare sede, conservando a Budapest un’attività di ricerca e una sezione che assegna diplomi di diritto ungherese.

Il caso Szfe
Il problema del mancato rispetto della libertà accademica in Ungheria non riguarda, naturalmente, solo la Ceu, ma appare generalizzato. Il più recente esempio, in questo senso, è fornito dalla vicenda della Szfe, l’Università di Arti Teatrali e Cinematografiche occupata dai suoi studenti da più di un mese in segno di protesta contro la riforma governativa che ha imposto all’istituto vertici fedeli al premier. L’esecutivo aveva motivato questa decisione sostenendo, nel caso della Szfe, la necessità di rimodulare programmi didattici e modalità di finanziamento sulla base di uno “spirito patriottico”.

È chiaro che ci troviamo davanti a un nuovo tentativo del sistema guidato da Orbán di asservire un’istituzione che aveva fama di essere indipendente. Troppo, a quanto pare, per il governo. Un’istituzione fondata 155 anni fa che oggi, con la protesta in atto, sta diventando un simbolo dell’impegno della società civile ungherese contro l’orbanismo. L’ultimatum della dirigenza di abbandonare l’edificio entro la sera dello scorso 16 ottobre è stato respinto dagli occupanti che hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale in quanto considerano la riforma incostituzionale.

L’occupazione, quindi, continua, sostenuta in patria da scrittori, attori e registi contrari al sistema, e all’estero da personalità dello spettacolo di fama mondiale che hanno inviato messaggi solidali ai protagonisti dell’iniziativa. Una presa di posizione in questo senso ha avuto luogo anche da parte della comunità accademica internazionale e martedì 27 ottobre, rappresentanti delle parti in causa sono intervenute con tesi, chiaramente fra loro contrastanti, a un dibattito ospitato dalla commissione Cultura e Istruzione del Parlamento europeo.

Tra Corti e media
In questi ultimi mesi è capitato più volte che le leggi ungheresi venissero considerate in violazione del diritto europeo. Del resto, la recente relazione della Commissione europea sullo stato diritto nei Paesi membri ha sollevato preoccupazioni in diversi campi nel caso dell’Ungheria.

Le inquietudini riguardano soprattutto l’indipendenza della magistratura – non giova da questo punto di vista la recente nomina a presidente della Corte suprema di Zsolt András Varga, 52 anni, candidato vicino al premier -, la carenza di meccanismi di controllo che favorisce la corruzione, la minore trasparenza e qualità del processo legislativo, l’indebolimento delle istituzioni indipendenti e la situazione del sistema mediatico. Un sistema caratterizzato da ripetute iniziative del governo per silenziare le voci dissenzienti e addomesticare l’informazione.

Su questo punto ha avuto luogo, di recente, uno scontro fra Viktor Orbán e la vicepresidente della Commissione europea, Vera Jourová che ha definito il panorama mediatico ungherese “allarmante” – dopo le dimissioni in massa della redazione di Index.hu – e accusato il premier danubiano di costruire una democrazia malata. La reazione di Orbán ha avuto luogo con una richiesta di dimissioni di Jourová in una lettera a Ursula von der Leyen. Per il leader danubiano, infatti, le dichiarazioni della vicepresidente non costituiscono solo “un attacco al governo ungherese democraticamente eletto, ma offendono anche l’Ungheria e il popolo ungherese”.

La Commissione, però, ha chiarito subito di non voler dar seguito a questo scambio polemico, avvenuto alla vigilia della pubblicazione del rapporto sullo Stato di diritto nell’Ue, e caratterizzato dalla manifesta volontà ungherese di non partecipare a negoziati con la Jourová considerata dal governo di Budapest politicamente di parte, quindi non obiettiva e imparziale. Il botta e risposta continua.