I negoziati in Qatar verso un solo esito: la riconquista talebana dell’Afghanistan
Lunedì 14 settembre hanno preso il via in Qatar i negoziati tra talebani e governo dell’Afghanistan, dopo la cerimonia ufficiale celebrata a Doha il 12 settembre. Alla presenza del segretario di Stato statunitense Mike Pompeo, l’incontro segue quella dello scorso 29 febbraio in cui gli Stati Uniti e il movimento talebano avevano formalmente sottoscritto i termini di un accordo negoziale per porre termine alla più lunga guerra combattuta da Washington, ormai nel suo diciannovesimo anno.
Si parla di “accordo di pace” nelle dichiarazioni ufficiali e sui giornali internazionali, ma non si parla di pace al tavolo negoziale, bensì di aperture e concessioni ai talebani a fronte delle rinunce che il governo afghano, sempre più debole e in balia di eventi che non può controllare, dovrà accettare suo malgrado.
Sebbene al momento sia stata avviata la prima fase di un negoziato tra le parti e che dovrebbe agevolare un cessate il fuoco duraturo come premessa per i successivi passi di un percorso molto accidentato, i 18 attacchi alle forze di sicurezza afghane registrati mentre a Doha si dava inizio al dialogo non sono una buona premessa.
La vittoria di Trump e dei talebani
Gli Stati Uniti sono il soggetto che più di tutti ha a cuore la conclusione dell’accordo, qualunque esso sia. In tale quadro si impone la razionale opportunità cercata (e trovata) dal presidente Donald Trump in un’ottica elettorale: il ritiro dall’Afghanistan è la promessa fatta ai suoi elettori. Non è una novità per Washington anteporre interessi di politica interna ed elettorali a quelli delle relazioni internazionali o agli equilibri della geopolitica. Prima di lui l’allora presidente Barack Obama, artefice del grande surge che portò a schierare in Afghanistan 140.000 militari statunitensi e della Nato.
Quel che emerge chiaramente è che i talebani si impongono come vincitori, ottenendo il disimpegno da parte degli Stati Uniti e la possibilità di agire sostanzialmente indisturbati attraverso un’inclusione “forzata” nelle forme del potere a danno di un esecutivo che è stato incapace di governare in maniera efficace negli ultimi 6 anni.
Una sostanziale assenza di governo che è frutto dello stallo politico derivante dal compromesso che dal 2014 ha imposto la diarchia del Presidente Ashraf Ghani e del Primo ministro esecutivo Abdullah Abdullah che, nonostante le forti divergenze, anche sul tema del negoziato con i talebani, hanno però accettato di sostenere l’iniziativa di Doha. Un’adesione che non aveva alternative.
Paese in transizione
Si costruisce così un equilibrio precario in cui solo gli Stati Uniti e i talebani ottengono un risultato soddisfacente: i primi intenzionati ad andarsene, i secondi ben felici di agevolarne il disimpegno per poter avere libertà d’azione a scapito del governo di Kabul, terzo attore (non protagonista) che pagherà il conto di una partita giocata in sua vece.
A Doha si chiude il capitolo dell’impegno statunitense e si apre quello della difficile transizione che porterà i talebani a imporre una riorganizzazione della struttura dello Stato afghano, in termini sostanziali e di principi, di cui progressivamente e anche attraverso l’uso della forza prenderanno il controllo riproponendo il modello di emirato islamico.
L’autore di questo articolo ne ha recentemente parlato con il Generale David H. Petraeus, già comandante militare in Afghanistan ed ex direttore della CIA, che in un’intervista rilasciata alla Rivista Militare dell’Esercito italiano, e pubblicata in inglese da START InSight, ha manifestato tutta la sua preoccupazione: “Lo scopo nei colloqui di pace (…) è di allontanare le forze [statunitensi] così da poter rovesciare il governo afghano senza ostacoli. L’accordo sembra implicitamente anticipare la fine del gioco così come gli stessi insorti hanno costantemente perseguito dal 2001: una riconquista talebana del paese”.