L’Unione europea e la guerra culturale in Polonia e Ungheria
Varsavia vuole i soldi del Recovery Fund, si oppone al Green Deal per preservare la sua ricca e inquinante industria mineraria. Budapest battaglia sui migranti con l’Europa, strizza l’occhio alla Turchia di Erdogan con cui vorrebbe aumentare il giro di affari e mira a costruire una zona commerciale generosa nei Balcani occidentali.
Normale dialettica in seno all’Unione europea: ogni Paese porta avanti i suoi interessi nazionali e il blocco di Visegrád trova sempre, o quasi, una visione comune per contare di più e ottenere, di conseguenza, maggiori vantaggi.
Eppure, il confronto fra i Visegrád e l’altra Europa non si misura solo in termini politico-economici. È un braccio di ferro sui valori, sull’identità, sulla tradizione quello che si delinea all’orizzonte.
Quale Polonia, quale Ungheria
La domanda non è quale Europa Varsavia e Budapest vogliono, ma quale Polonia e quale Ungheria vogliono stare nella Ue. Ed è qui che il divario fra i due Paesi leader di Visegrád e gli altri si acuisce.
Come ha evidenziato la Gazeta Wyborcza, la Polonia si trova nel bel mezzo di “una guerra culturale conservatrice” innescata – la tesi del giornale dell’intellighenzia liberal di Varsavia – e politicizzata poi dal PiS, il partito conservatore guidato da Jaroslaw Kaczynski.
L’Ungheria di Viktor Orbán si muove nel solco della “democrazia illiberale”, frase che lo stesso premier usò in un discorso nel 2014 per definire le caratteristiche che avrebbe avuto il suo Paese. Anche qui non si tratta di questioni meramente politiche o legislative, la “democrazia illiberale” nei pensieri di Orban altro non è che una democrazia che si fonda sulla tradizione cristiana e sull’identità nazionale. Da qui il rifiuto del multiculturalismo poiché vettore per annacquare valori, identità e storia.
Lo scontro sui diritti
In questo contesto, il terreno di scontro principale – sia sul fronte interno, soprattutto in Polonia, sia con l’Europa – sono i diritti: dall’aborto, alla lotta alla discriminazione contro gay e transgender, al ruolo della donna nella società, poiché rappresentano uno spartiacque, qualcosa per cui si può essere pro o contro.
La “questione gay” è diventata terreno di aspro scontro in Polonia. Nel giorno del secondo giuramento da presidente, Andrzej Duda si è ritrovato nell’aula del Parlamento i deputati della forza di opposizione Lewica vestiti con i colori dell’arcobaleno. Marce per i diritti della minoranza Lgbt sono diventate frequenti. Il primo sabato di settembre in 2mila hanno superato il confine sfilando da Slubice a Frankfurt an der Oder (Germania) per denunciare le discriminazioni contro i gay. Un attacco frontale che fa del movimento Lgbt la voce più limpida di opposizione al nazionalismo di Duda e Kaczysnki. D’altronde che il tema sia divisivo lo certificano le reazioni del PiS e della Chiesa cattolica locale, che in una sorta di neo-alleanza fra trono e altare hanno paragonato le teorie del gender al bolscevismo e chiesto l’apertura di cliniche per “convertire i gay”. Eppure, ancora un comune su tre in Polonia si vanta di essere “Lgbt free” e quasi l’80% dei transessuali confessa di non poter vivere la propria sessualità in maniera aperta.
Malgrado evidente, però, la battaglia per i diritti gay fatica a imporsi in Polonia. E se la guerra culturale del PiS ha avuto buon gioco finora, è pur vero che il terreno resta fertile per la retorica anti-omosessuali. Il cattolicesimo di stampo tradizionalista radicato nelle aree rurali fornisce il background ideale per le battaglie contro i diritti.
Rafal Trzaskowski, sindaco di Varsavia e brillante candidato anti-Duda, non ha mai partecipato a una manifestazione Lgbt pur avendo dichiarato il suo sostegno alle loro sfide. E Lech Walesa, storico leader di Solidarnosc, primo presidente della Polonia libera e oggi incensato come patriarca anti-nazionalista, nel 2011 disse che il primo deputato apertamente gay eletto in Parlamento doveva sedersi in fondo, magari “dietro un muro”.
Le incognite sul futuro
Il Parlamento di Budapest ha invece qualche mese fa licenziato una legge a stragrande maggioranza che impedisce ai transessuali di cambiare nome sui documenti d’identità. La Corte europea dei diritti umani si pronuncerà. Ma difficilmente Orbán – che ha già incassato una sconfitta sul tema migranti e sulla legge anti-Ong di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue – farà marcia indietro. In Ungheria, le unioni gay sono ammesse, ma il 56% della popolazione è contraria a trasformarle in matrimoni. La legge sui trans ha avuto consensi fra la popolazione.
La guerra culturale di Kaczynski e la democrazia illiberale di Orbán potranno perdere vivacità quando i promotori e sponsor principali usciranno di scena. Ma non sarà una loro sconfitta elettorale – possibile nei prossimi anni – e l’avvento di nuovi governi più sensibili a trasformare come d’incanto Ungheria e Polonia nei migliori amici della visione della storia e della cultura degli europei, quelli cresciuti al di qua della Cortina di ferro.