L’Europa può beneficiare dalla photo opportunity tra Serbia e Kosovo alla Casa Bianca
L’accordo “storico” che doveva ricucire l’ultima frattura ancora palesemente aperta nei Balcani occidentali si è rivelata una photo opportunity dai risvolti bizzarri, se non a tratti grotteschi – ma soprattutto, uno sforzo pressoché inutile -. La firma di un’intesa per una presunta normalizzazione delle relazioni economiche tra Belgrado e Pristina, sotto gli auspici e la facilitazione della Casa Bianca, lo scorso 4 settembre appariva già di per sé come una soluzione di ripiego al vertice di giugno (poi saltato all’ultimo) organizzato dall’Amministrazione Trump tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il suo omologo kosovaro Hashim Thaçi, che secondo molti commentatori avrebbe dovuto ufficializzare la possibilità dello scambio di territori tra Belgrado e Pristina.
Per quanto nessuno si aspettasse niente di rivoluzionario dall’accordo tra Vučić e il premier kosovaro Avdullah Hoti, chiamato a sostituire il suo presidente in attesa di una probabile formalizzazione dell’incriminazione, l’accordo raggiunto pochi giorni fa a Washington ha lasciato molti di stucco – per i suoi contenuti, per la sua forma e perfino per il body language dei due leader balcanici trapelati da alcuni filmati sui social.
I termini dell’accordo
Innanzitutto, la forma: quello firmato a Washington non è un accordo internazionale, dato che Vučić e Hoti non hanno apposto la loro firma sulla stessa copia del documento, né hanno firmato lo stesso accordo; anzi, le versioni differiscono pure leggermente. I contenuti, poi, non farebbero gridare al miracolo: le parti si impegnerebbero a rispettare gli accordi già raggiunti a febbraio sulla realizzazione di un’autostrada e di un collegamento ferroviario tra Belgrado e Pristina, aggiungendo la realizzazione di un valico di frontiera congiunto e il riconoscimento reciproco dei diplomi e dei certificati professionali. L’unico punto politicamente rilevante in chiave bilaterale è l’impegno – anche qui con il sostegno statunitense che sembra quasi imposto – ad uno studio di fattibilità sulla condivisione del lago artificiale di Gazivode/Ujmani, importante riserva idrica ed energetica nel nord del Kosovo a cui la Serbia vorrebbe accedere; il punto c’è, ma la soluzione appare comunque alquanto vaga ed aggirabile.
Altra questione bilaterale, ma di natura in un certo senso interlocutoria, è la moratoria reciproca di un anno sul riconoscimento internazionale del Kosovo: Pristina si impegna a non avanzarlo e a non cercare di aderire ad organizzazioni internazionali, mentre Belgrado si impegna a fermare la sua campagna di delegittimazione.
Vengono poi una serie di clausole inserite, apparentemente, più a beneficio del facilitatore statunitense che delle parti coinvolte: le infrastrutture menzionate verranno realizzate con l’assistenza delle statunitensi International Development Finance Corporation ed Export-Import Bank; le parti si impegnano poi a proibire l’acquisto e l’uso di apparecchiature 5G provenienti da “venditori inaffidabili” (leggi Cina) ed acconsentiranno alla condivisione di informazioni con i sistemi di monitoraggio USA, come quelli per le liste dei passeggeri dei voli. Anche l’intenzione di Serbia e Kosovo di designare Hezbollah come organizzazione terroristica “nella sua interezza” (e quindi non nella sua sola accezione militare, come fa l’Unione europea) sembra più un desiderata statunitense che un’impellente questione bilaterale.
La clausola su Israele
Ma il punto in assoluto più bizzarro dell’accordo è quello relativo ad Israele, non propriamente un Paese della regione balcanica. La Serbia si impegna a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme entro il prossimo luglio, mentre il Kosovo e Israele si riconosceranno impegnandosi a stabilire relazioni diplomatiche. Trump ha abituato il mondo intero a stranezze, gaffe e mancanza di tatto: ma inserire Israele in un accordo di normalizzazione economica tra Serbia e Kosovo sembra andare oltre la più vivida immaginazione.
In realtà, tale mossa è rivelatrice di come Trump veda la questione tra Pristina e Belgrado: un affare ormai bruciato, dato che il grande accordo politico è sfumato con l’uscita di scena di Thaçi, ma che può essere riciclato (anche elettoralmente) per la campagna di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i Paesi arabi, di cui gli Emirati Arabi Uniti sono stati apripista. Non a caso Trump, in un tweet successivo all’accordo, ha lodato il Kosovo “a maggioranza musulmana” per il riconoscimento di Israele, dichiarando che “altri paesi islamici e arabi” si uniranno presto – con buona pace dello scarsissimo peso che la religione ha nella definizione politica kosovara. Da capire, poi, cosa ci guadagni la Serbia nello spostare la propria ambasciata a Gerusalemme, andando contro la linea di Bruxelles e buttando a mare decenni di tradizione terzomondista ereditata dalla Jugoslavia, e che era tornata utile nell’ostacolare la campagna di riconoscimenti internazionali del Kosovo. Il video dell’espressione di Vučić alla menzione di Trump di questa parte dell’accordo fa quasi pensare che tale clausola sia stata inserita a sua insaputa.
La partita per Bruxelles
Un accordo inutile, quindi, sicuramente per Vučić e Hoti (quest’ultimo avrebbe addirittura rischiato una crisi di governo sul punto del lago di Gazivode/Ujmani), e in parte utile per Trump che – pur con un totale disinteresse sulla questione Serbia-Kosovo – ha ribadito una poco credibile immagine di pacificatore internazionale e di amico di Israele.
Il vero vincitore di questa storia a tratti surreale è però un altro, che non era presente alla firma. Si tratta dell’Unione europea, che di fronte alla farsa messa in atto a Washington ha un’occasione in più di fronte al mondo e, soprattutto, a Belgrado e Pristina, per dimostrare di essere l’unico attore con la serietà necessaria per portare avanti – piano, ma con sostanza – il processo di normalizzazione tra Serbia e Kosovo. L’Unione può provare tale punto già oggi, quando riprenderanno a Bruxelles i negoziati di alto livello guidati dal Rappresentante Speciale Miroslav Lajčak: non verrà fermato nessun accordo, e forse questa per una volta può essere una buona notizia.
Le opinioni espresse appartengono unicamente all’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Commissione europea o del Servizio europeo di azione esterna .