La doppia incognita Russia-Turchia nel nuovo scontro fra Armenia e Azerbaigian
Uno dei più longevi conflitti congelati del Caucaso meridionale si è riacceso di colpo domenica 27 settembre, con una nuova escalation militare tra Armenia e Azerbaigian nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, autoproclamatasi indipendente negli anni Novanta. Baku e Yerevan si accusano a vicenda di aver provocato lo scontro armato: un evento bellico che non è nuovo nella storia dell’ultradecennale conflitto, ma che appare diverso rispetto agli scontri avvenuti in estate e anche dalla “Guerra dei quattro giorni” dell’aprile 2016. Alcuni fattori sono infatti diversi, in particolar modo il coinvolgimento degli attori esterni.
Ciò avrebbe spinto l’Azerbaigian a cominciare l’offensiva per recuperare i territori perduti, anche se Baku afferma di essere intervenuta in risposta alla provocazione armena. Eppure l’Armenia è l’attore che ha vinto la guerra e il cui obiettivo politico-strategico è il mantenimento dello status quo, soprattutto in un contesto economico drammatico – è il Paese del Caucaso più colpito dalla pandemia -.
Perché adesso
Al di là di chi ha cominciato la guerra sono più importanti i motivi per cui è stata scatenata. Il primo fattore è quello collegato alla situazione interna azera: vista la crisi economica, per il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev è stato necessario spostare l’attenzione sul conflitto del Nagorno-Karabakh. A questo si aggiunge la frustrazione trentennale per aver perso la guerra e la regione.
Allo stesso tempo, tutti gli attori esterni coinvolti nel conflitto sono alle prese con altri problemi e sicuramente non potranno intervenire con prontezza per frenare l’escalation: in particolare i tre Paesi che detengono la presidenza del Gruppo di Minsk (la struttura di mediazione del conflitto del Nagorno-Karabakh in seno all’Osce): Russia, Stati Uniti e Francia.
Mosca, ad esempio, è alle prese con vari grattacapi. C’è la seconda ondata di infezioni da coronavirus ad aggravare tutte le problematiche economiche del Paese; ma anche la difficile situazione geopolitica, con le preoccupazioni derivanti dalla Bielorussia e dal caso Navalny, che ha portato con sé un ulteriore peggioramento dei rapporti con l’Occidente.
Poi ci sono gli Usa: a un mese dalle elezioni presidenziali, nessuno a Washington ha il tempo e la volontà di intervenire nel Caucaso. Gli Usa manterranno molto probabilmente una posizione di neutralità – altra testimonianza del generale disimpegno da parte di Donald Trump nella regione -.
Parigi è invece impegnata con la strategia di ripartenza post-pandemia, è in crisi con la Russia in seguito al caso Navalny e in difficili rapporti con la Turchia per le tensioni nel Mediterraneo orientale.
Quanto durerà
Un altro fattore che può essere il punto di svolta nel conflitto è la durata dell’escalation. Gli scenari possibili sono due: da un lato una durata di pochi giorni appena, come in occasione degli scontri precedenti, al termine dei quali l’Azerbaigian riesce a conquistare alcuni villaggi persi, ponendo fine al conflitto salvo riprenderlo qualche mese dopo. Oppure, seconda opzione, lo scoppio di un conflitto su larga scala. In quest’ultimo caso tutto dipende da due attori: la Turchia e la Russia.
Se il ministero degli Esteri russo prima di contattare l’Azerbaigian chiama Ankara vuol dire che è cambiato qualcosa nella regione. In tutte le varie fasi del conflitto, anche in quelle di escalation, la Turchia si è sempre pronunciata dando sostegno politico a Baku, da una parte, ma richiamando al cessate-il-fuoco e invocando la via dei negoziati, dall’altra. Ieri, per la prima volta, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato molto diretto: ha detto di appoggiare l’Azerbaigian, accusato l’Armenia di minacciare la pace nel Caucaso e infine di ritenere responsabile il governo di Yerevan per un’eventuale catastrofe. Dichiarazioni così nette non erano mai state pronunciate da Erdogan e hanno fatto quasi pensare a un intervento immediato della Turchia, anche considerando che Ankara è diventata molto più assertiva di prima, specie nel Mediterraneo, e non si può escludere che lo stesso copione si ripeta anche nel Caucaso.
Il ruolo di Mosca e Ankara
Qualora si verificassero queste condizioni, si potrebbe anche pensare a un appoggio militare turco al governo azero. Lì si arriverebbe direttamente a una guerra su larga scala. Così si avrebbe una situazione di conflitto con due attori locali, Armenia e Azerbaigian, con dietro due potenze come Russia e Turchia. Mosca è infatti obbligata a difendere Yerevan in caso di attacco, considerando che l’Armenia fa parte del Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva che ha una clausola di difesa collettiva come la Nato.
Per adesso i russi hanno chiamato le parti al cessate-il-fuoco ed evitato un intervento diretto. Forse, si può pensare che Mosca voglia permettere ad Aliyev di riprendersi qualche territorio, così da dare a Baku una piccola rivincita, pur mantenendo delle linee rosse da non oltrepassare, ripristinando così il fragile status quo precedente. In questo caso, comunque, Vladimir Putin dovrà negoziare con Erdogan: il leader turco ha finora sempre lasciato campo libero nel Caucaso, evitando lo scontro diretto, ma ormai è diventato un attore talmente imprevedibile che non si può escludere un suo intervento. Ecco che, se si vedrà garantito l’appoggio militare turco , l’Azerbaigian potrebbe lanciarsi in una guerra locale potenzialmente catastrofica per tutta la regione.
La Russia, ovviamente, potrà continuare nel suo ruolo di presunto mediatore – va ricordato che durante questi anni ha continuato a vendere armi sia ad armeni sia ad azeri, e che la stessa Turchia, partner strategico di Baku, non ha mai ceduto tanti armamenti quanto la Russia all’Azerbaigian –. A un certo punto, però, Mosca sarà costretta ad intervenire a fianco dell’Armenia: non è nell’interesse russo risolvere il conflitto in favore degli azeri. Vorrebbe infatti dire perdere influenza su Yerevan, che ancora sette anni fa rinunciò – a differenza dell’Ucraina – a firmare gli Accordi di associazione con l’Unione europea perché il Cremlino aveva ricattato il governo minacciando di revocare il sostegno militare in caso di guerra con l’Azerbaigian.
Ecco perché resta ancora oggi molto più probabile il primo scenario descritto: quello di uno scontro limitato nel tempo che consenta al presidente azero Aliyev di riprendersi alcuni territori per poi fermarsi, senza provocare un allargamento su ampia scala dello scontro.