Campioni e chimere: l’Unione europea e il dilemma Euronews
Thierry Breton, Commissario europeo per il Mercato interno e i servizi, ha recentemente ricordato la necessità di aggiornare la legislazione europea sulla concorrenza per far sì che la creazione di nuovi “campioni industriali europei” non rimanga soltanto un desiderata di lungo corso. Secondo le sue intenzioni, a questo dovrebbe aggiungersi entro la fine del 2020 un rivisto Piano d’azione sui media per estendere la competitività e il pluralismo nel settore audiovisivo europeo.
Tuttavia, in attesa di valutare dopo l’estate i frutti del lavoro di Breton – già ministro dell’Economia francese ai tempi di Chirac – fa abbastanza rumore la mancanza di chiarezza sul futuro di quello che nel 1993 si propose come uno dei primi veri esperimenti transcontinentali nel settore: Euronews.
La storia del media
La euro-media company nacque con una missione ambiziosa: fornire al pubblico europeo un mass media che potesse superare la tradizionale distorsione in chiave nazionale delle notizie legate al contesto Ue e, più in generale, rappresentare una bandiera di rilevanza mediatica europea con prospettiva europea nel nuovo ordine mondiale che si stagliava dopo il crollo del blocco sovietico e la decisa accelerazione impressa al progetto europea tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90.
Per questi motivi l’Unione europea di radiodiffusione (Ebu) cucì insieme un consorzio di 10 media pubblici europei, con France Television e la Rai in testa; grande assente di allora fu la Germania, che poteva vantare dalla propria la storia e il peso della storica e influente emittente internazionale Deutsche Welle.
A tali grandi ambizioni hanno sin da subito corrisposto ingenti finanziamenti dalla Commissione europea, che nel 2010 aveva ufficialmente stabilito in una propria decisione come l’emittente fosse un ente che “contribuisce all’interesse generale europeo nel mondo dell’informazione”. Sotto l’attuale accordo quadro 2017-2021, questo sostegno si è spinto fino a 24,5 milioni di euro l’anno, rappresentando anche il 38% dei ricavi totali di Euronews nel 2017.
Scalate, fallimenti e necessità future
Nonostante alcune fluttuazioni nelle quote di proprietà e nuovi ingressi, fino al 2015 il controllo editoriale e finanziario di Euronews era rimasto saldamente in mano al consorzio di televisioni europee, nel frattempo allargatosi fino a includere oltre 20 membri.
La svolta arrivò nel 2015 con l’acquisto del 53% delle quote da parte di Naguib Sawiris, imprenditore egiziano attivo nel settore delle telecomunicazioni: da allora, il magnate ha gradualmente aumentato il suo interesse fino a portarlo all’attuale 88%, con il solo 12% residuo a rimanere nelle mani del consorzio europeo. Questo radicale ribaltamento delle dinamiche proprietarie ha fatto inarcare più di un sopracciglio a Bruxelles, e il tema è ritornato in voga nelle recenti settimane di grandi manovre per il rinnovo del bilancio europeo 2021-2027.
Infatti, nel corso del dibattito presso la commissione Cultura e Istruzione del Parlamento europeo del 6 luglio scorso sono emersi tutti gli scetticismi possibili sull’attuale situazione di Euronews: se nell’area progressista (S&D, Gue/Ngl) l’accento è stato posto sulla necessità di superare la condizione di monopolio de facto di Euronews sui fondi europei dell’azione multimedia (una cifra oscillante tra il 70% e il 95%, con una media di oltre l’80%, tra il 2014 e il 2018), i liberali di Renew Europe hanno marcato la necessità di ancorare l’erogazione del sostegno annuale al raggiungimento degli obiettivi indicati nel contratto quadro, senza schierarsi apertamente per una discontinuità; piuttosto duri anche i popolari del Ppe, a favore di una revisione federalista e indipendente del progetto, e i conservatori di Ecr, che hanno sottolineato come nessuno Stato europeo abbia mai riconosciuto Euronews come mass media di servizio pubblico e che il sostegno alla prosecuzione del finanziamento europeo dovrebbe essere subordinato a un’attenta valutazione dei dati.
Aspettando l’autunno
Una recente risposta sibillina del commissario Breton ad una provocatoria domanda del gruppo di destra Identità e Democrazia (Id) ha riscaldato confermato indirettamente come non sia stata presa ancora alcuna decisione sul futuro del media transalpino. Stando alle parole dell’ex ceo Michael Peters, la mancata erogazione di fondi europei porterebbe alla cancellazione delle attività relative al contratto quadro europeo, senza minare l’autosufficienza finanziaria di Euronews che sarebbe dunque in grado di proseguire autonomamente la propria avventura.
Al di là dei tecnicismi, il vero interrogativo è se esista o meno in Europa la volontà politica di supportare un pilastro informativo indipendente, multilaterale ed europeo, che sia esso Euronews o un nuovo futuro progetto. Ad ora, le uniche conclusioni che si possono riassumere sono la diversità sostanziale di vedute sulla sua evoluzione futura e la diffusa – ma non unanime – insoddisfazione verso il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti. In questo contesto, lo stralcio del riferimento all’interesse generale europeo nel mondo dell’informazione dal nuovo Regolamento finanziario europeo del 2018 potrebbe costituire un ostacolo in più al rinnovo del sostegno finanziario di marca Ue.
Si dovrà giocoforza attendere l’autunno – periodo in cui il Parlamento dovrebbe pronunciarsi sulla questione, ed in cui emergerà anche il peso della presidenza tedesca – prima che queste domande trovino risposta.
***
“Cara AI Ti Scrivo” è la rubrica che offre ai più giovani (studenti, laureandi, neolaureati e stagisti) la possibilità di cimentarsi con analisi e commenti sulla politica internazionale. Mandateci le vostre proposte: affarinternazionali@iai.it.