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I RAPPORTI TRA ISRAELE, EMIRATI E BAHREIN

Accordo di Abramo: Trump festeggia, ma la Palestina (quasi) non compare

16 Set 2020 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

Lo chiamano tutti “accordo di pace“, ma in effetti non pone fine a un conflitto tra Paesi. L’Accordo di Abramo, firmato in pompa magna alla Casa Bianca dal presidente statunitense Donald Trump come notaio, dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, dal ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed Al Nahyan e dall’omologo del Bahrein Abdullatif Al Zayani è più che altro una dichiarazione di normalizzazione tra i Paesi oltre che l’annuncio di cooperazione in diversi campi.

In realtà, siamo di fronte a tre distinti accordi: una dichiarazione generale tra tutte le parti e un accordo tra Israele e gli Emirati e un altro tra Israele e il Bahrein. Nel primo si parla in generale di pace e collaborazione nel Medio Oriente. Nel secondo si scende nel dettaglio anche di accordi di collaborazione in diversi campi, culturali, sociali ed economici. Nel terzo, con il Bahrein, Israele normalizza i rapporti, scongiurando l’uso della forza.

Quale pace senza Palestina?
In tutti si riconosce la comune origine, da qui il nome che si rifà al patriarca Abramo, comune capostipite per ebrei, cristiani e musulmani. E la Palestina? Nel trattato con gli Emirati e in quello con il Bahrein il conflitto palestinese viene nominato, mentre nella dichiarazione generale viene sottinteso quando si parla di necessità di mantenere la pace in Medio Oriente, di cercare il rispetto e la tolleranza verso ognuno con la fine del radicalismo e dei conflitti.

Da Ramallah e dalle dichiarazioni di molti analisti arabi contrari all’accordo pare chiaro che proprio la Palestina sia l‘assente più importante in questo accordo, tanto che il presidente palestinese Abu Mazen ha parlato di pugnalata alle spalle: “Tutto ciò che è accaduto alla Casa Bianca – si legge in una dichiarazione del suo ufficio – non porterà la pace nella regione, fintanto che gli Stati Uniti e Israele come entità di occupazione non riconosceranno i diritti del popolo palestinese di stabilire il proprio Stato entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come la sua capitale, e risolvendo la questione dei rifugiati secondo la risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”.

La dichiarazione prosegue dicendo che “la leadership palestinese sottolinea di non aver autorizzato nessuno a parlare a nome del popolo palestinese al posto dell’Olp, e che il conflitto principale non è tra gli Stati che hanno firmato l’accordo con Israele, ma con il popolo palestinese che geme sotto l’occupazione”, aggiungendo che “non ci sarà stabilità e sicurezza nella regione senza la fine dell’occupazione“.

L’accordo con gli Emirati e quello con il Bahrein
Nell’accordo con gli Emirati si parla, ricordando i trattati israeliani con Egitto e Giordania, di impegno a “lavorare insieme per realizzare una soluzione negoziata al conflitto isralo-palestinese che soddisfi le legittime esigenze e le aspirazioni di entrambi i popoli e di promuovere la pace, la stabilità e la prosperità in Medio Oriente” e, per farlo, si fa riferimento al piano di pace di Trump per il Medio Oriente.

La soluzione del conflitto, per gli estensori e i firmatari dell’accordo di Abramo, risiede lì: “Ricordando la cerimonia tenuta il 28 gennaio scorso, in cui il presidente Trump ha presentato la sua Vision for Peace, e impegnandosi a continuare i loro sforzi per raggiungere una soluzione giusta, globale, realistica e duratura al conflitto israelo-palestinese”, scrivono i diplomatici nel testo.

Una visione, quella del piano trumpiano di gennaio, che è stata respinta al mittente dalla Palestina e da quei pochi amici che sono rimasti al suo fianco, nonostante il piano preveda la creazione di due Stati. Il punto non è tanto quanti Stati verranno a crearsi, ma con quale sovranità, e il problema è, ovviamente, soprattutto palestinese. Così come disegnato il piano, in cambio di infrastrutture e aiuti, i palestinesi è vero che avrebbero il loro Stato, ma ridotto a una enclave in terra israeliana, senza confini se non quelli israeliani.

Nell’accordo con il Bahrein, la questione palestinese è ancora meno presente. “Le parti hanno discusso il loro comune impegno a promuovere la pace e la sicurezza in Medio Oriente, sottolineando l’importanza di abbracciare la visione degli accordi di Abraham, allargare il cerchio della pace, riconoscere il diritto di ogni Stato alla sovranità e di vivere in pace e sicurezza, e continuare il sforzi per raggiungere una soluzione giusta, globale e duratura del conflitto israelo-palestinese”, è scritto nel documento.

Ramallah sempre più sola
È davvero una pugnalata nelle spalle, come ha detto Abu Mazen? Come sempre, la verità è nel mezzo. Israele fa bene a recuperare posizioni in Medio Oriente sia per questioni geopolitiche – in particolare in chiave anti-Iran – sia economiche. Ma lo fa anche perché recupera posizioni lasciate vuote da una leadership, quella palestinese, che non ha voluto adeguare la giusta rivendicazione di uno Stato e di diritti per il proprio popolo al mondo che cambia. L’epoca di Arafat, degli attentati, di Oslo, è finita. La politica palestinese deve adeguarsi, aggiornarsi e, sicuramente, cambiare anche nelle persone. Abbandonare l’assistenzialismo e agire politicamente in maniera diversa.

L’allontanamento dei Paesi arabi dalla sua visione – tra i primi il premier giordano qualche mese fa parlava della non dogmaticità della soluzione a due Stati, ma della possibilità di una soluzione a uno Stato – deriva anche da questo. Ma il pericolo che incombe è quello di un isolamento sempre maggiore, che derivi dalla maggiore radicalizzazione. I razzi lanciati da Gaza mentre si firmava a Washington l’accordo, sono un esempio.

Con l’allontanamento di tutti, l’Iran è pronto a aumentare la sua influenza sui governi di Palestina e di Gaza. Così come la Turchia. E questo non giova né ai rapporti di Ramallah con i vecchi amici del Golfo (a parte il Qatar, impegnati tutti contro l’Iran, con Ankara che recupera posizioni nell’area) né tantomeno con Israele e Stati Uniti.