Tunisia-Italia: numeri, malessere e rimpatri
Barche fatiscenti sulla lunga costa di Sidi Mansour, oltre venti km di spiaggia a ridosso della città di Sfax che guarda negli occhi Lampedusa. E’ da qui che in queste settimane stanno partendo oltre il 40% di migranti diretti in Italia, siano essi tunisini o subsahariani.
Comunicano attraverso segnali di luce, i trafficanti, gli scafisti, i capitani delle barche ed i migranti. Quando il buio è totale si esce dal porto a bordo di piccole feluche che percorrono un primo tratto di mare, per poi salire a bordo di barche più grosse che iniziano la traversata. Dodici ore circa il tempo di percorrenza in condizioni ottimali, ma spesso le barche vanno in avaria già dopo un’ora di tragitto, all’altezza delle isole Kerkennah, uno stupendo arcipelago rovinato prima da una marea nera provocata dall’errore fatale di una compagnia estrattiva, poi dallo stigma dell’immigrazione.
A partire sono sempre di più i tunisini, ma non solo loro. Secondo i dati del Forum tunisino dei diritti economici e sociali, nel primo semestre del 2020 i migranti che si sono imbarcati da questo pezzo di costa sono stati circa 4000, contro i circa 1000 dello stesso semestre dell’anno precedente (dati comunque contenti rispetto a quelli del biennio 2011-2012). A giugno, nel 57% dei casi a imbarcarsi sono stati tunisini, i restanti stranieri.
Quest’ultimi – che in Tunisia difficilmente riescono ad ottenere asilo o protezione umanitaria – sono soprattutto subsahariani che gli scorsi anni sceglievano la Libia come Paese dal quale salpare verso l’Europa, ma che hanno ora optato per la Tunisia viste le condizioni sempre più critiche nei dintorni di Tripoli e il trattamento disumano che qui viene riservato ai migranti.
Le coste tunisine sono quindi diventate il punto di incontro di diverse rotte migratorie verso l’Europa, governate da leggi diverse e in mano a business separati, come provato dal diverso tariffario applicato degli scafisti a tunisini e subsahariani, che salgono anche a bordo di imbarcazioni diverse tra loro.
Il malessere che genera le partenze
Per capire che cosa spinge i tunisini a partire verso le coste italiane bisogna lasciarsi alle spalle la costa, regione dove il turismo negli anni d’oro ha portato più benessere che altrove e dalla quale proviene buona parte dell’élite politica che da sempre fa il possibile per conservare i privilegi della zona. Serve attraversare tutto il Paese e arrivare al centro della sua pancia meridionale, la più depressa e la più abbandonata, quella più fertile alle attività di reclutamento del sedicente stato islamico che proprio in questa parte della Tunisia ha ingaggiato tanti combattenti, offrendo loro pochi spicci.
E’ soprattutto qui – da dove oltre 10 anni fa partì la rivoluzione che diede il là alle primavere arabe – che la disoccupazione ormai al 16% (anche 34% tra i giovani) strangola la gente. E la situazione – dicono le previsioni del Fondo monetario internazionale – potrebbe addirittura peggiorare, visto che ci sarà un’ulteriore contrazione del Pil che porterà con sé un ulteriore aumento della disoccupazione.
Facile quindi capire che cosa porti la popolazione locale a manifestare – come avviene del resto da anni – e a chiedere il rispetto di quegli accordi firmati anni fa tra governo e sindacato che promettevano sviluppo e occupazione per la regione. “Promesse mai realizzate“, gridavano a metà luglio i manifestanti che con l’esercito in strada chiudevano la valvola di pompaggio dell’oleodotto di Al Kamour che dal governatorato di Tataouine porta petrolio nell’intera nazione.
Alla crisi socio economica si somma quella politica, anche questa latente da ormai un decennio. Con un parlamento particolarmente lottizzato, a luglio è venuto meno l’11esimo governo degli ultimi dieci anni. Un esecutivo durato solo cinque mesi, gli stessi che ci aveva messo a formarsi. Il presidente della Repubblica Kaïs Saïed – la figura istituzionale di riferimento che ha dovuto fare i conti anche con l’occupazione del Parlamento da parte del partito più nostalgico dell’epoca benalista – ha quindi incaricato il ministro degli interni Mesheshi di creare un nuovo governo.
Il nodo dei rimpatri
I trenta giorni che la Costituzione dà al tentativo di Mesheshi sono stati fortemente influenzati dalla crisi con l’Italia proprio sulla questione migranti. Da quando Roma ha alzato la voce, gli sforzi delle istituzioni ancora in piedi si sono quasi tutti concentrate sul contenimento delle partenze, come ha mostrato il viaggio del presidente della repubblica e di Mesheshi a Sfax e dintorni sulla quale sono aumentati visibilmente i controlli.
E’ in questa ottica che dal 10 agosto i voli bisettimanali previsti dall’accordo di rimpatrio siglato tra Roma e Tunisi hanno ripreso a viaggiare al completo. Bloccati a causa dell’emergenza Covid, già dal 16 luglio erano infatti ripresi i voli charter adibiti al rimpatrio, ma per mantenere il distanziamento rimaptriavano solo 20 tunisini per tratta, per un totale di 40 a settimana, contro gli 80 previsti. Fino al 6 agosto sono quindi rientrati 95 migranti tunisini, dato destinato a cresce incrementalmente nelle prossime settimane.
Anche se il governo italiano ha ipotizzato un’ulteriore operazione di rimpatrio più corposa, tramite una nave, questa ipotesi resta per ora una mossa solo eventuale, per altro sgradita alla controparte tunisina che deve fare i conti con il malcontente creato da le alcune dichiarazioni italiane. Non a caso, martedì un gruppo di manifestanti, tra i quali i familiari dei migranti clandestini arrivati in Italia, si è dato appuntamento davanti all’Ambasciata italiana a Tunisi per reclamare il rispetto dei diritti umani dei migranti e opporsi alle procedure di espulsione dal nostro Paese.