Siamo a un punto di non ritorno?
La devastazione di Beirut ha colpito il mondo intero. Le esplosioni che hanno raso al suolo il porto e distrutto parte della città, causando centinaia di morti e migliaia di feriti e sfollati, potrebbero rappresentare la goccia che fa traboccare il vaso di un Paese dilaniato da decenni di instabilità politica, corruzione, tensioni sociali, crisi economica e conflitti regionali. Quelle esplosioni per certi versi sono arrivate come una doccia fredda. Per altri, come la rappresentazione plastica di una morte annunciata.
Tuttavia, è doveroso chiedersi quale sia precisamente la causa di questa morte. Di che morte parliamo?
Le speculazioni e i presunti complotti, come in ogni vicenda mediorientale, non scarseggiano.
Alcuni media tradizionali, in particolare occidentali e israeliani, si sono affrettati a collegare le esplosioni di Beirut al giudizio atteso il 18 agosto dal Tribunale Speciale sull’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri nel 2005. Il Tribunale Speciale presumibilmente annuncerà la condanna di alcuni membri di Hezbollah. Dunque, Hezbollah stessa potrebbe aver sparigliato le carte attraverso la devastazione della città. È una narrazione incardinata in quella più ampia mirata a sottolineare non solo le colpe di Hezbollah, ma anche e soprattutto la sua designazione come organizzazione terroristica.
Chi altri, se non un’organizzazione terroristica, potrebbe aver commesso un tale attacco? Perché è precisamente quella parola – “attacco” – che ha usato il Presidente statunitense Donald Trump in riferimento agli eventi di Beirut. Se un attacco è stato, non può che essere stato un attacco terroristico. E dunque la pistola fumante non può che essere quella di Hezbollah.
Specularmente, altri speculano su un possibile complotto, un’operazione false flag, mirata precisamente a far insorgere il popolo libanese contro Hezbollah, richiedendo che i suoi arsenali vengano rimossi dalle città e possibilmente dal Paese, supervisionati dalla comunità internazionale. La convocazione di una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu per richiedere la supervisione internazionale del Paese sarebbe dunque l’occasione colta dalle potenze occidentali e Israele per indebolire e contenere Hezbollah.
Nello specchio riflesso di questo contro-complotto la domanda centrale è dunque: “cui bono?” Se a beneficiare dall’attacco saranno i nemici di Hezbollah è forse lì che dovremmo cercare la proverbiale pistola fumante?
Siamo ben lontani da un’analisi forense che ci permetterà, chissà un giorno, di verificare se c’è del vero dietro a questi fantasiosi complotti e contro complotti. Ad oggi speculare sulla loro veracità non è solo puerile, ma anche una inutile distrazione dalla banalità del male dietro alle esplosioni di Beirut.
Eppure, il fatto stesso che queste speculazioni esistono, e sono emerse mentre la nuvola di fumi tossici e detriti ancora avvolgeva la città, mette in luce una delle fragilità strutturali del Paese. Le divisioni sociopolitiche libanesi, che rispecchiano e sono alimentate dalle più ampie divisioni regionali e globali che affliggono da decenni il Medio oriente, rappresentano uno dei tasselli chiave di quella fragilità che ci permette di comprendere il senso ultimo delle esplosioni di Beirut.
Perché a prescindere dai complotti politici, la vera storia che emerge dal porto di Beirut è proprio quella di una profonda fragilità, che è andata via via approfondendosi fino ad arrivare, forse con le esplosioni, o forse no, a un punto di non ritorno.
Ad oggi, la versione più verosimile dei fatti è atrocemente banale. Un porto distrutto da una scintilla nel Hangar 12, in cui 2,700 kg di nitrato di ammonio giacevano da quando una nave moldava proveniente dalla Georgia e diretta in Mozambico fece scalo a Beirut nel lontano 2014. Quel nitrato di ammonio sequestrato sei anni fa non era altro che il frutto di una negligenza criminale, a sua volta causata da corruzione, venalità e da una struttura di sicurezza frammentata, specchio del degrado morale di un’intera classe politica, e delle profonde ferite sociali del paese intero. Quel nitrato di ammonio giaceva da sei anni nel Hangar 12 per gli stessi identici motivi che hanno mobilitato le piazze di Beirut l’anno scorso e che rappresentano quella promessa di rigenerazione tradita dopo la guerra civile.
Le esplosioni di Beirut piovono sul bagnato. La guerra in Siria e la pressione generata dall’influsso di rifugiati ha riacceso tensioni sociali, economiche e politiche. La crisi economica e il collasso della moneta, accelerate dal Caesar Act statunitense che impone sanzioni sulla Siria con effetti secondari paralizzanti sul Libano, devastano il Paese da mesi, e il governo tecnico, frutto delle proteste del 2019, si è dimostrato fino ad ora incapace di mettere in atto le più basilari riforme essenziali. La pandemia ha messo a dura prova il settore sanitario.
Ora la distruzione del porto rischia di causare una crisi sanitaria e alimentare senza precedenti. Infatti, il Libano importa ben l’80% dei beni consumati, di cui il 60% transitava per il porto di Beirut. Tra questi, oltre il 90% del grano importato, alla base della dieta libanese. La distruzione del porto di Beirut potrebbe dunque rappresentare la goccia che fa traboccare il vaso.
Le manifestazioni del fine settimana, con i duri scontri tra manifestanti e poliziotti vicino al Parlamento, sono una prima spia di instabilità? Dobbiamo aspettarci rivolte, rivoluzione o addirittura una nuova guerra civile? O nulla di tutto questo in una popolazione che ancora ricorda il dramma della guerra, e che ha sviluppato gli anticorpi contro il ripetersi della storia, ma che, al tempo stesso, non ha ancora trovato la resilienza necessaria per fare il passo verso una reale trasformazione?
Quel che è certo è che nell’immediato il Libano richiederà un enorme afflusso di aiuti esterni per tamponare una catastrofe alimentare e sanitaria e i 250 milioni di euro, stanziati ieri dai leader mondiali riuniti in videoconferenza dal presidente francese Emmanuel Macron con il sostegno dell’Onu, sono un primo passo. Ma quel che è altrettanto certo è che questi aiuti non potranno arrestare il declino del Paese.
L’Europa probabilmente non è in grado di invertire la rotta libanese, ma può certamente rallentarne la spirale, assicurandosi che gli aiuti per la ricostruzione siano monitorati attentamente localmente e internazionalmente, evitando che anche questi diventino parte di quelle fragilità esplose in un’enorme fungo di fumo nel porto di Beirut.