Rialzarsi dalla crisi per contrastare il populismo: l’occasione del Myanmar
A novembre ci saranno le elezioni in Myanmar. Sarà strano, sarà come affacciarsi per la seconda volta, temerariamente, alla speranza dopo lo schiaffo, tremendo, subito a seguito del risultato del 2015 da quello che sembrava il preludio, incontrovertibile, alla vittoria della democrazia.
La realtà dei fatti ha dimostrato – come sostenuto da importanti teorici di processi di democratizzazione, come Pietro Grilli di Cortona e Norberto Bobbio – che la democratizzazione di un’organizzazione governativa è un cammino tortuoso e che i passi possono essere fatti in avanti o all’indietro. E l’organizzazione politica attualmente insediata a Naypyidaw sembra proprio averne fatti nella seconda direzione.
I fallimenti della Lega Nazionale per la Democrazia
Il partito del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha vinto la competizione elettorale del 2015, risultando, nelle prime elezioni realmente libere del Paese dopo la dittatura militare (iniziata con il colpo di stato del 1962), il partito di maggioranza in ambedue le camere del Paese.
La formazione di governo, seguita alla schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), da una parte orfana della figura istituzionale trascinante della leader Aung San Suu Kyi ma dall’altra forse schiava del suo peso in qualità di supervisore e presidente de facto, non ha saputo però garantire i passi sostanziali da far intraprendere al Paese la realizzazione delle istanze democratiche. Lo spaventoso baratro della repressione del popolo Rohingya nel quale l’apparato militare della Birmania ha fatto cadere il Paese ha fatto coppia con l’inettitudine delle figure della nuova amministrazione che non sono riuscite a sobbarcarsi il peso del potere amministrativo in sé, lasciandolo ricadere in più occasioni nelle mani dell’apparato militare.
Il governo della Lnd si è dibattuto fra le problematiche etniche e quelle di natura economica arrivando ad un cambio della figura dirigenziale, avvenuto nel marzo 2018, quando Htin Kyaw, economista e fedelissimo di Aung San Suu Kyi, ha lasciato il passo all’attuale presidente Win Myint, pur non riuscendo a risolvere i suoi problemi strutturali.
Il fattore economico
L’economia di Myanmar ha avuto un calo evidente nel settore del turismo proprio a causa della repressione contro l’etnia rohingya e del suo impatto sul palcoscenico internazionale. La brutale campagna repressiva esercitata dall’esercito, prescindendo in alcuni episodi dall’autorizzazione del governo centrale, non ha permesso né di rafforzare il controllo del territorio (di fronte al massacro dell’etnia Rohingya le altre formazioni etniche hanno tendenzialmente perso la fiducia verso il governo) né di corroborare il proprio smart power nell’ambito internazionale.
Il Pil del Paese ha subito un arresto nel 2019, risultando di poco inferiore a quello del 2018, a testimonianza del fatto che anche in campo economico l’amministrazione democratica non ha saputo esprimere le proprie potenzialità seppure le premesse fossero delle migliori.
Sull’imbarazzante rallentamento economico sembrano pesare – come da indicazioni della Banca mondiale nel dicembre del 2019 a premessa della crisi pandemica – un rallentamento dei consumi e degli investimenti esteri collegabili all’oramai evidente deterioramento delle condizioni di sicurezza.
A fianco delle problematiche legate alla sicurezza fa sentire il suo peso l’impasse della classe politica che occupa il ramo amministrativo dell’organizzazione: la nuova classe dirigente emersa in seno alle fila della Lnd. Se da una parte hanno dato prova di competenze accademiche e larghezza di vedute, i collaboratori di Aung San Suu Kyi dall’altra hanno mostrato di essere ormai assuefatti ad un’organizzazione verticistica che riduce al minimo la libertà di movimento periferica e la rallenta enormemente. Come sostenuto infatti da politologi come Richard Roewer, la Lega sembra andare in diretta controtendenza rispetto ai partiti democratici moderni, proponendo una struttura completamente accentrata nella quale il vertice pretende di legiferare anche su questioni di micro-management .
La figura della dirigente
Aung San Suu Kyi, come noto, come segretaria della formazione vittoriosa nel 2015 avrebbe dovuto occupare una carica istituzionale ma è stata estromessa dal governo a causa di una legge che lo vieta a chi ha sposato uno straniero. E’ rimasta nel ruolo di presidente de facto che non ha saputo sfruttare al meglio per supportare lo sforzo organizzativo della farraginosa macchina della Lnd e imporsi sulla resistenza del partito dei militari (continuazione della dittatura).
La figlia del generale Aung San ha però annunciato la propria candidatura alle elezioni del novembre di quest’anno, pochi giorni fa. La sua candidatura è tutt’oggi illegittima a causa della citata legge, ma la Lnd annuncia di essere pronta alla battaglia costituzionale per far avvallare la posizione della propria dirigente. Il principio sul quale graverà l’istanza della Lnd per far ottenere ad Aung San Suu Kyi la candidatura è quello della necessità di una maggiore inclusione della partecipazione alla vita politica, specialmente in momenti di emergenza come il presente.
Già all’inizio di quest’anno, e quindi prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, la LND aveva tentato di emendare la legge elettorale ma con scarsi risultati. Col tentativo di candidare la storica segretaria, il partito cerca di cavalcare l’accresciuta popolarità (causa emergenza sanitaria Covid-19), ma se l’organizzazione della dirigenza democratica non saprà adattarsi alle nuove e complesse sfide istituzionali per la seconda volta il sogno della democratizzazione potrebbe allontanarsi di molto.