Una ripresa autunnale con qualche incognita
L’Unione europea ha affrontato l’inizio della pausa estiva in uno stato di grazia. Con l’accordo del 21 luglio sul Next Generation EU, il Consiglio europeo ha varato il programma comune di aiuti, mirati a fronteggiare l’emergenza economica post-Covid, più ambizioso e più importante della storia dell’Ue; e ha contestualmente adottato il Quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027.
Malgrado le difficoltà di un negoziato che si è protratto per quasi cinque giorni, e le divisioni che pure sono emerse su vari aspetti di questo programma, alla fine l’Europa si è mostrata all’altezza della sfida di una congiuntura drammatica, imprevista e imprevedibile, come quella determinata dalla pandemia sulla economie e le società europee. E rilevano sotto questo profilo non solo la dimensione complessiva delle risorse che saranno mobilitate, ma anche la circostanza che questi interventi, straordinari e temporanei, saranno finanziati facendo ricorso a strumenti di debito comune, emessi dalla Commissione e garantiti dal bilancio dell’Ue. Inoltre, questi aiuti saranno distribuiti, grazie ad un esplicito riconoscimento del principio di solidarietà, secondo criteri innovativi, che privilegeranno i Paesi più colpiti dalla pandemia.
Ora si tratta di garantire i seguiti operativi di quel programma. Si dovrà completare il negoziato sul Quadro finanziario pluriennale con il Parlamento europeo, che non aveva mancato di esternare qualche critica su vari aspetti della intesa raggiunta in Consiglio europeo (in particolare sui tagli apportati ai fondi a disposizione di alcuni importanti programmi comuni).
Ma soprattutto i governi degli Stati membri dovranno definire, entro la metà di ottobre, i Piani nazionali di ricostruzione, per sottoporli successivamente alla valutazione della Commissione e del Consiglio. In quella sede si dovrà garantire il rispetto delle condizioni, relative alla coerenza con gli obiettivi definiti in sede europea, alla efficacia e alla verificabilità degli interventi, che sono parte integrante delle intese del 21 luglio. Si tratterà di un compito sicuramente impegnativo per i governi, che dovranno definire programmi e progetti credibili, mirati e monitorabili; ma anche per la Commissione che, in sede di verifica, dovrà assicurarne la coerenza con le raccomandazioni Paese.
In fondo, la stessa credibilità del Recovery Fund comune si giocherà sulla capacità di questi piani nazionali di contribuire concretamente a una ripresa e a un rilancio delle economie in un quadro di sostenibilità ambientale e sociale.
Su un altro fronte, comprensibilmente trascurato dai media per effetto del Covid, si dovrà completare il negoziato per la ridefinizione dei rapporti fra l’Unione e il Regno Unito dopo la Brexit. Le scadenze sono strette, data la ferma determinazione del Primo ministro britannico a concludere un accordo entro la fine dell’anno, e la corrispondente, più volte annunciata, indisponibilità a chiedere una proroga del periodo transitorio. Su alcuni aspetti di questa trattativa le posizioni rispettive sono all’apparenza ancora distanti. Ma la posta in gioco è troppo importante per entrambe le parti perché si possa realisticamente mettere in conto un fallimento del negoziato e l’ipotesi di una Brexit senza accordo.
Comprensibile che ancora in questa fase le parti mantengano le proprie posizioni, soprattutto su questioni di principio. Ma in prospettiva una accordo che garantisca una relazione basata su una interdipendenza efficacemente regolata delle rispettive economie, e su collaborazione ampia e articolata in materia di affari interni, giustizia, politica estera e anche difesa, è di tutta evidenza nel reciproco interesse sia del Regno Unito che della Ue.
L’Europa dovrà poi tradurre in fatti concreti e iniziative verificabili la sua dichiarata aspirazione all’autonomia strategica. Dovrà essere in grado di assumere quelle responsabilità sulla scena internazionale che la Presidente della Commissione aveva individuato, all’inizio del suo mandato, quando aveva evocato il ruolo geo-politico dell’Unione.
Il quadro internazionale resta complesso, incerto e problematico. E la pandemia ha accentuato tendenze già in atto: crisi del multilateralismo, prevalenza di un multipolarismo privo di regole e di potenze egemoni, debolezze e inadeguatezze delle istituzioni internazionali, ripiegamento sulla dimensione nazionale, crisi del commercio internazionale e frammentazione delle catene globali del valore.
E’ però oggi più che mai nell’interesse dell’Europa definire un programma di iniziative che le consentano di impegnarsi credibilmente per il rilancio di un multilateralismo efficace, per il ripristino di regole del gioco riconosciute e rispettate, e per il rafforzamento di istituzioni internazionali autorevoli e ugualmente rispettate. Così come sarebbe nell’interesse dell’Europa riassumere un qualche più visibile protagonismo nella gestione di crisi regionali, soprattutto quando si sviluppano ai confini del nostro continente (come ad esempio in Siria, Libia e da ultimo anche Libano).
Ma la pandemia ha anche esaltato la competizione globale fra Usa e Cina. Questa rivalità strategica, in origine confinata alle tensioni sui rapporti commerciali, si è rapidamente trasferita sul terreno del primato sulle tecnologie di punta e successivamente delle responsabilità per la gestione della pandemia; e ha ormai assunto – anche per effetto della campagna per le presidenziali negli Usa – i caratteri di un confronto/scontro a tutto campo (con reciproche accuse di attività di spionaggio e di interferenze negli affari interni), che molti definiscono come una nuova guerra fredda fra le due superpotenze.
Per l’Europa questa competizione sistemica pone sfide non indifferenti. Prima fra tutte il rischio di dover scegliere fra l’alleato tradizionale e partner storico (oggi sicuramente meno affidabile che nel passato) e la potenza emergente (che offre grandi opportunità come partner economico, ma dalla quale ci dividono differenze difficilmente colmabili sul piano dei valori e dei principi).
Paradossalmente, però, gli effetti della pandemia offrono anche opportunità all’Europa. Basti pensare che il Covid ha indebolito gli Usa, per la pessima e ondivaga gestione della pandemia e per gli effetti del virus sull’economia e sull’occupazione. Ma ha anche messo in discussione il ruolo e lo status della Cina, che non ha mai chiarito fino in fondo le sue responsabilità sull’origine del Covid, e che sta subendo un rallentamento significativo dei tassi di crescita del Pil nazionale, con un impatto non indifferente sui livelli di occupazione, perdendo così gran parte della sua credibilità come potenza responsabile, come effetto di una nuova aggressività sul piano internazionale e della prova di forza esercitata su Hong Kong.
Tutto questo per concludere che, almeno sulla carta, si aprono spazi di iniziativa per l’Europa, a patto che l’Ue sappia definire con chiarezza le grandi linee di una sua “China policy” che le consenta di coniugare la necessaria solidarietà transatlantica con la tutela di interessi autenticamente europei.
C’è infine da chiedersi quale ruolo potrà svolgere in questo contesto la Conferenza sul Futuro dell’Europa. Annunciata e faticosamente messa in cantiere prima del Covid, e poi di fatto accantonata per far spazio ad altre priorità, la Conferenza resta tra le iniziative da avviare nel quadro del programma della presidenza semestrale tedesca della Ue.
È però più che lecito affrontare questa iniziativa con la dovuta cautela. Ben venga la Conferenza se sarà in grado di coinvolgere oltre alle istituzioni anche cittadini, organizzazioni di categoria e rappresentanze di interessi, e se sarà capace di fornire idee e spunti per un’Unione più efficace, più trasparente e più democratica. Attenzione però ad evitare sia il rischio di suscitare aspettative eccessive, sia la prospettiva di trasformare questa lodevole iniziativa in una cassa di risonanza di differenze di percezione e di visione sul ruolo della Ue, che sono già oggi fin troppo evidenti.