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Passato glorioso, futuro in dubbio?

Osce: crisi istituzionale e d’identità nell’anno delle ricorrenze

31 Ago 2020 - Gian Lorenzo Zichi - Gian Lorenzo Zichi

Il 2020 è un anno di importanti ricorrenze storiche per l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Il 1° agosto 1975 veniva apposta la firma all’Atto finale di Helsinki, momento istitutivo della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Csce, della quale l’Osce è oggi diretta emanazione): nel ricordare tale evento, il premier albanese Edi Rama, al cui Paese spetta la presidenza annuale dell’Organizzazione, ha definito i principi ed i valori di cui è espressione “rilevanti ancora oggi, come 45 anni fa”.

Il prossimo novembre saranno poi trascorsi 30 anni dalla firma della “Carta di Parigi per una Nuova Europa” che, nell’autunno 1990, prefigurava “una nuova era di democrazia, pace e unità” per il continente europeo, che vedeva allora crollare i muri e le divisioni che l’avevano caratterizzato per decenni.

Eppure, l’entusiasmo con il quale questi anniversari sono stati salutati è stato dapprima smorzato dall’emergenza Covid-19, e ora ulteriormente turbato da una crisi interna senza precedenti che vede oggi l’Osce priva di una piena leadership.

Cronaca di una crisi “da Vancouver a Vladivostok”
I rappresentanti dei 57 Stati che compongono il più esteso forum securitario multilaterale mondiale, nel corso della riunione dello scorso luglio a Vienna non sono infatti riusciti a trovare il consenso sull’estensione dei mandati del Segretario generale – incarico sino ad ora ricoperto dal diplomatico svizzero Thomas Greminger – e dei vertici dei principali organi dell’organizzazione: il Rappresentante per la libertà dei media (Rfom), l’Alto commissario per le minoranze nazionali (Hcnm) ed il direttore dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr).

Per la mancata conferma del francese Harlem Désir quale Rfom e dell’islandese Ingibjörg Sólrún Gísladóttir alla guida dell’Odihr è stata decisiva la contrarietà di Azerbaigian, Turchia e Tagikistan. Baku ha definito le critiche del primo alla scarsa trasparenza della stampa azera riguardo all’emergenza Covid-19 e al risorgere delle tensioni con l’Armenia come “di parte, non oggettive e non indipendenti”; mentre Ankara e Dushanbe hanno colto l’occasione per manifestare la loro insofferenza nei confronti dell’Odihr e della sua direttrice, rei di aver espresso perplessità sui diritti civili e politici nei due Paesi e di aver favorito la partecipazione alle recenti edizioni dell’annuale Osce Human Dimension Implementation Meeting a organizzazioni non governative e gruppi politici invisi all’establishment turco e tagiko (quali la Journalist and Writers Foudation e l’Islamic Renaissance Party of Tajikistan).

Il delinearsi di questo dissenso pare abbia fatto precipitare le discussioni viennesi, facendo riemergere datati e mai sopiti malumori da parte di altri Paesi come Armenia, Francia, Canada, Islanda e Norvegia, che hanno fatto venir meno il loro appoggio all’Alto commissariato sulle minoranze nazionali (Hcnm) guidato dall’italiano Lamberto Zannier – già segretario generale Osce dal 2011 al 2017 – e allo stesso segretario generale Greminger.

Ultima chiamata?
La crisi presente non è soltanto un’ulteriore manifestazione del momento di stanca del multilateralismo, ma altresì la sublimazione di specifiche questioni da tempo irrisolte. Tra queste, la difficoltà da parte dei Paesi partecipanti di immaginare una nuova collocazione internazionale per il Processo di Helsinki dopo la fine della Guerra fredda e in presenza di una forte “concorrenza” da parte di altre organizzazioni come Nato, Onu e la stessa Unione europea; l’esito imperfetto di un processo di istituzionalizzazione che ha lasciato l’Osce senza personalità giuridica e confermato la regola del consenso nel processo decisionale; l’eccessiva dipendenza dell’organizzazione dall’andamento delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, che ha tradizionalmente rappresentato acceleratore e freno alla sua attività; l’affievolirsi dell’attrazione valoriale dei contenuti dell’Atto finale e dell’Esprit de Paris.

A queste significative limitazioni politiche negli ultimi anni si sono aggiunte difficoltà di tipo tecnico e procedurale, come nel caso dell’estenuante definizione dei budget unificati annuali.

A scanso di sviluppi improvvisi, per la soluzione della vicenda relativa alle nomine dei vertici Osce occorrerà attendere il Consiglio ministeriale di dicembre, a Tirana. È lecito auspicare che questa (ennesima) crisi sia l’occasione per spingere gli Stati a una riflessione concreta sul presente e il futuro dell’organizzazione.

Richiami politici come quelli finalizzati al ritorno ad una partecipazione dei capi di Stato e di governo ai momenti di indirizzo appaiono ragionevoli, ma è soprattutto necessaria una riflessione sulle priorità e l’effettiva volontà di rilancio del forum da parte dei Paesi membri, a cominciare da quelli europei; questi – tra cui l’Italia che nel 2018 ha avuto la presidenza annuale – contribuiscono a circa il 70% del budget e nella Csce testarono (con alterne fortune) il loro corale agire estero. Un loro atteggiamento propositivo potrebbe oggi impedire che anniversari come quelli presenti diventino epitaffi di un “Cold War relic” e anzi rilanciare un ibrido diplomatico capace di essere ancora utile nello scenario internazionale di oggi e di domani.