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5G, USA, HONG KONG E COVID-19

“Nella testa del Dragone” c’è la rinascita. Parla Giada Messetti

21 Ago 2020 - Danilo De Rosa - Danilo De Rosa

La Nuova Via della Seta, inaugurata nel 2013, si è posta l’obiettivo di far uscire la Cina dai confini nazionali e proporla come attore più importante nello scacchiere geopolitico. Abbiamo chiesto a Giada Messetti, autrice per Mondadori di “Nella testa del Dragone” di tracciare un bilancio dell’iniziativa, a sette anni dal suo lancio e di fronte alla pandemia di coronavirus partita proprio dal gigante asiatico.

“La Nuova via della Seta era partita in maniera abbastanza decisa e invece già prima del Covid-19 aveva subito un rallentamento, che poi si è accentuato; al momento è ancora in difficoltà a causa della situazione mondiale, però la Cina non rinuncerà a questo progetto perché è un po’ il simbolo del secolo cinese, quindi sicuramente Pechino cercherà di ricalibrarlo. La Cina ha cercato di rilanciarlo creando la Via della Seta sanitaria e distribuendo mascherine e dispositivi di protezione. Ad aver quasi sempre funzionato è stata la tratta terrestre tra Cina ed Europa, perché col blocco dei voli, il trasporto su rotaie avevano preso con forza e stavano andando meglio del solito”.

Nel corso del Novecento gli Stati Uniti in cambio di investimenti hanno chiesto, più o meno esplicitamente, fedeltà all’alleanza atlantica. La Cina cosa chiede in cambio, invece?
“La Cina si muove un po’ nello stesso modo: non è un caso che la Nuova Via della Seta venga definita anche come la “globalizzazione in salsa cinese“, proprio perché è un tentativo di un ordine mondiale alternativo a quello degli Stati Uniti. La differenza sostanziale è che alla Cina non interessa esportare il proprio modello politico, ma soltanto fare affari. Pechino non guarda a che tipo di ordine politico ci sia nei vari Paesi, si interessa invece alle opportunità di business. Chiaramente, questo lega gli Stati alla Cina, quindi c’è una richiesta di lealtà e di conseguenza ci ritroviamo con un aumento dell’egemonia cinese. Spesso si utilizza il termine “imperialismo” quando si parla di Cina, ma è bene distinguerlo dall’imperialismo americano: Pechino non ha un’ambizione di esportazione del modello politico. Si tratta più di egemonia che di imperialismo, è un qualcosa di più sotterraneo, che passa attraverso l’economia, i contratti, il business”.

Qualche settimana fa l’Unione europea ha citato per la prima volta la Cina fra gli Stati attivi nel diffondere disinformazione, affiancandola alla Russia. A che cosa mira la Cina con la sua propaganda nelle nazioni occidentali? C’è differenza dall’atteggiamento russo, ovvero quello di cercare di dividere e indebolire le istituzioni europee per sovrastarle?
“L’informazione cinese mira soprattutto a influenzare l’opinione pubblica occidentale proiettando un’idea positiva della Cina. Questo si è visto in particolare durante le prime settimane della pandemia in Europa: l’Italia, che è stata il primo Paese occidentale a essere colpito, è stato quello in cui la propaganda cinese ha funzionato meglio all’inizio, attraverso una copertura mediatica e istituzionale che ha dato una visibilità importante agli aiuti cinesi. Trovo che la propaganda cinese sia per ora diversa da quella russa, che è più invasiva e meno acerba. Quando si tratta di Unione europea, da un lato è vero che la Cina preferirebbe trattare con i singoli Paesi da una posizione di forza, dall’altro non escluderei che alla Cina interessi un mondo multipolare in cui l’Europa non sia allineata completamente agli Stati Uniti. L’idea che ci sia un’Europa terzo attore rispetto all’America non dispiace alla Cina”.

A che cosa è dovuta questa accelerazione della Cina nell’imposizione di misure che mettono a rischio il sistema “Uno Stato, due sistemi” su cui si era basata la relativa indipendenza di Hong Kong? Perché ci si sta muovendo adesso e non un anno fa, quando le proteste erano più accese e diffuse?
“Credo che l’accelerazione sia stata in parte causata dal Covid-19. È stata una prova di forza della Cina dovuta a due motivi: sia perché si arrivava dalle proteste dell’anno scorso sia perché c’era una debolezza internazionale dovuta alla pandemia. Pechino si è sentita abbastanza forte per muoversi e approfittare della situazione. Va anche considerato che il punto di vista cinese su Hong Kong è molto diverso dal nostro: noi occidentali la vediamo come l’unico baluardo di democrazia in Cina che in questo momento muore, mentre per la lettura propagandistica del Sogno cinese di Xi Hong Kong è la ferita aperta del “secolo delle umiliazioni”, perché era una colonia inglese figlia dei trattati che Pechino ha sempre ritenuto ineguali. Per molti cinesi questo secondo ricongiungimento a Hong Kong, dopo quello del 1997, è una cosa naturale”.

Con un incremento della rilevanza della Cina nel contesto geopolitico, crede che in futuro le sue posizioni sui diritti umani (penso al Tibet e allo Xinjiang) cambieranno?
“No, non credo che succederà perché l’Occidente non si è mosso quando forse avrebbe avuto la forza di far cambiare delle cose. La Cina ormai è una potenza mondiale e il nervosismo americano è dovuto alla minaccia percepita su alcuni dossier, come quello tecnologico: per la prima volta il monopolio americano sulla rete è in qualche modo assediato dall’arrivo delle aziende cinesi. Penso che la Cina non accetterà più le pressioni occidentali sulla questione dei diritti umani, e un esempio è proprio Hong Kong: la posizione di forza che ha preso è indicativa di come la Cina abbia aggirato tutte le questioni interne legate ai diritti umani. Non accetterà più le interferenze straniere perché riesce ad essere assertiva e reagire in maniera dura con dichiarazioni molto forti”.

Che cosa ha sbagliato, se ha sbagliato qualcosa, la Cina nella gestione del coronavirus?
“Sicuramente ha sbagliato nelle prime fasi della pandemia, quando non è stata tempestiva nella comunicazione ai cittadini. I motivi per cui questo è avvenuto non li sapremo mai, ma sicuramente ha influito la poca comunicazione burocratica tra il centro e la periferia e il necessario tempo di riflessione per capire come evitare il panico. Va anche detto che la Cina è stato il primo Paese ad essere colpito dal virus e quindi ha dovuto avere il tempo per capire cosa stesse succedendo. Trovo sempre complicato parlare di colpe e responsabilità, in particolare per un evento così eccezionale: del resto anche tutti i Paesi occidentali, nonostante avessero a disposizione più tempo e informazioni della Cina, hanno accumulato ritardi e si sono trovati in enorme difficoltà”.