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Palazzo di Vetro

Libia: cessate il fuoco ed elezioni a marzo

22 Ago 2020 - Francesco Semprini - Francesco Semprini

È un segnale incoraggiante quello giunto dalla Libia nella giornata di venerdì, se non altro perché registra una convergenza tra Est ed Ovest che mancava da quasi 17 mesi. Da quel 4 aprile 2019 in cui il generale della Cirenaica Khalifa Haftar, contravvenendo agli impegni presi nei consessi internazionali, davanti a confusi garanti occidentali e inique mediazioni di cancellerie e palazzi più o meno di vetro, decise di far capitolare da sera a mattina Tripoli e tutte le sue milizie, ergendosi a nuovo rais. Un calcolo errato foriero di un disastro umanitario e di un conflitto divenuto regionale. Ebbene, era da allora che il dialogo, o meglio il confronto intra-libico, non portava a una identità di intenti come quella emersa ieri quando sia Tripoli sia Tobruk hanno proclamato il cessate il fuoco.

“Alla luce della situazione attuale e dell’emergenza coronavirus, il capo del Governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez al Serraj, ordina a tutte le forze militari di osservare un cessate il fuoco immediato”, si legge sulla pagina Facebook dell’esecutivo di Tripoli. Dove si puntualizza come ogni tregua esiga “la demilitarizzazione di Sirte e Jufra”. Serraj si spinge oltre e annuncia finanche “elezioni presidenziali e parlamentari il prossimo marzo sulla base di un’adeguata base costituzionale su cui le due parti concordano”. Dall’altro capo del Paese è il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, a confermare il clima conciliante sul congelamento delle ostilità: “Chiediamo a tutte le parti di osservare il cessate il fuoco immediato e fermate tutte le operazioni militari in tutta la Libia”.

Convergenza tra Turchia e Russia
La concertazione è accolta con soddisfazione da Onu, Lega Araba, Usa, Italia e Francia che tuttavia chiede immediati passi concreti sul terreno. Del resto l’intesa tra le due anime della Libia è il riflesso di una progressiva convergenza dei principali azionisti di riferimento stranieri, con Turchia, primo sponsor del Gna, e Russia, sostenitrice dell’Est, che non vogliono arrivare a uno scontro aperto sugli insidiosi terreni di Sirte e Al Jufra. E l’Egitto che vuole evitare inutili e pericolose escalation militari consolidando la sua influenza sulla Cirenaica per blindare la propria linea di confine come cerniera anti-terroristica.

La convergenza tuttavia cela due fragilità. La prima è la divergenza sul futuro assetto politico del Paese. Mentre Serraj parla di primavera elettorale, Saleh punta a emendare gli accordi costitutivi di Skhirat e formare un nuovo Consiglio presidenziale di tre membri, uno per ogni regione (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e con sede a Sirte. Al di là della fattibilità del secondo progetto, che richiederebbe un complicato processo di modifica degli accordi costitutivi siglati nel dicembre 2015, le parti devono necessariamente giungere a un’intesa sul processo di rilancio politico interno, che non può non passare attraverso una riforma della costituzione.

“Il cessate il fuoco è una notizia molto positiva e destinata sicuramente a durare grazie alla volontà di Turchia, Russia ed Egitto che non hanno nessuna intenzione di farsi la guerra”, spiega Daniele Ruvinetti consulente strategico e profondo conoscitore delle dinamiche libiche. Secondo il quale anche il cammino per il rilancio istituzionale del Paese può trovare uno sbocco senza minare la solidità del cessate il fuoco. “Sulla proposta della zona demilitarizzata di Sirte ed Al Jufra e sulla ripresa della produzione di petrolio molto dipende dalla reazione di Haftar ma in particolare degli Emirati – puntualizza -. Il nodo da sciogliere rimane sempre il controllo della mezzaluna petrolifera e della distribuzione dei proventi, finché non si risolverà questo aspetto sarà impossibile avere una pace duratura”.

Il nodo del petrolio
Ciò che ha descritto Ruvinetti è infatti la seconda fragilità sopra menzionata, ben più insidiosa rispetto alla prima. L’intesa attuale, seguita all’annuncio di Haftar della scorsa settimana di riaprire i pozzi petroliferi e i porti, e quindi di rimettere in moto produzione ed esportazione di greggio considerati la linfa vitale della Libia, prevede che i proventi dell’oro nero siano depositati in un conto speciale della Noc (Autorità petrolifera nazionale) presso la Libyan Foreign Bank. Conto che rimarrebbe congelato per almeno quattro mesi, durante i quali le parti dovrebbero trovare un accordo sulla distribuzione dei proventi fra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Ed è questo lo stesso presupposto in base al quale – come emerso a luglio, quando vi fu una prima riapertura dei pozzi dopo sette mesi di blocco decisi dal generale alla viglia della conferenza di Berlino del 19 gennaio per rafforzare il suo potere negoziale al tavolo delle trattative -, Washington starebbe lavorando alla creazione di una zona demilitarizzata nella mezzaluna petrolifera, ovvero nella fascia di territorio a sud dell’area costiera tra Sirte e Bengasi.

Il ruolo degli Emirati
Come a luglio, però, è giunta un’altra doccia fredda. Haftar, infatti, è pronto a fare un passo indietro anche questa volta, come conferma il portavoce, Ahmed Al-Mismari, secondo cui l’annuncio del capo della Guardia petrolifera (Pfg) Naji Al-Maghrabi sulla riapertura di giacimenti e porti si riferiva a un periodo limitato di tempo, necessario per sistemare alcune questioni tecniche. Dietro l’ambiguo annuncio di Al-Maghrabi c’era in realtà l’esigenza di impedire un blackout totale della Cirenaica ed evitare una dura presa di posizione dello stesso Saleh sul rischio di un collasso del sistema elettrico. Ma ridato “ossigeno” alle reti di distribuzione, Haftar è pronto a chiudere di nuovo i rubinetti petroliferi. Questo perché di fatto non c’è un accordo sulla distribuzione dei proventi del greggio.

Il generale non vuole lasciare la gestione dei proventi alla Noc perché è allineata alla capitale e Tripoli non è d’accordo nel dare soldi al generale perché fonte di finanziamento delle sue derive belliche. In questo senso è fondamentale l’opera di seduzione degli Emirati, sponsor più agguerriti dell’uomo forte della Cirenaica. Opera di seduzione che sembrava avesse sortito gli effetti sperati nell’ambito dell’accordo tra Israele ed Emirati patrocinato dagli Usa. Trump, che vede Abu Dhabi un alleato strategico nella regione, vuole emendare nell’accordo sul Medio Oriente anche l’ipotesi “riapertura pozzi libici”, pronto a incassare un altro risultato di politica estera da giocarsi in vista del voto per il rinnovo della Casa Bianca del 3 novembre. Nella speranza che le doti seduttive del presidente Khalifa bin Zayed Al Nahyan nei confronti dell’alleato Haftar, sempre più in difficoltà, siano veloci ed efficaci.