IAI
POST SOVIETICO

L’avvitamento di Lukashenko: l’ultimo dittatore d’Europa adesso volta le spalle a Putin

1 Ago 2020 - Anna Zafesova - Anna Zafesova

L’arresto a Minsk di una trentina di cittadini russi accusati di essere dei contractor della compagnia privata Wagner che stavano preparando atti terroristici e disordini in vista delle elezioni presidenziali del 9 agosto sembra un copione bocciato da Hollywood, ma segna una frattura epocale. Aleksandr Lukashenko – che in queste elezioni rischia seriamente, per la prima volta dal 1994 – ha accusato il Cremlino di aver voluto organizzare una rivolta contro di lui, proponendosi in una trasformazione incredibile nel candidato anti-russo.

Cosa sia accaduto veramente è difficile da stabilire, considerata anche l’abitudine di Lukashenko a distorcere la realtà: dopo essere stato un negazionista del coronavirus, ha annunciato di aver preso il Covid-19 facendo la malattia “in piedi”, mandando nel panico Vladimir Putin, con il quale si era scambiato pacche sulle spalle soltanto un paio di settimane prima. Ma in questo caso la realtà appare quasi secondaria rispetto al mito costruito dal presidente bielorusso. Che è il seguente: il Cremlino avrebbe mandato i suoi contractor impegnati normalmente in Siria o Libia a fare il lavoro sporco per conto dei militari russi, a preparare un’operazione in Bielorussia. Si presume, senza informare Lukashenko, e quindi contro Lukashenko. L’ambasciatore russo a Minsk è stato convocato, mentre Mosca nega tutto, ma in toni molto più sommessi di quelli che di solito usa per una qualunque dichiarazione su Facebook di un qualunque opinion-maker occidentale.

Le manovre tattiche di Minsk
Un’accusa incredibile da un uomo che soltanto un mese fa, dopo l’ennesima litigata sui prezzi del petrolio e del gas russo per Minsk, aveva detto a Putin: “Noi siamo gli unici veri alleati russi”. È vero che già dopo la rivoluzione dei Maidan in Ucraina, nel 2014, Lukashenko si era distanziato dalla Russia temendo un’ingerenza sul modello di quella tentata a Kiev, ed è vero che non ha mai accettato il progetto di una riunificazione sognata in alcuni uffici di Mosca, anche per risolvere il problema della ricandidabilità di Putin, cui si è poi ovviato con il “referendum” sui suoi nuovi mandati. È vero anche che da qualche anno l'”ultimo dittatore d’Europa“, come lo aveva definito Condoleeza Rice, corteggiava l’Unione europea e perfino gli Usa, con i quali aveva deciso di scambiare gli ambasciatori dopo 11 anni di rottura. Ma era altrettanto ovvio che si trattava di manovre tattiche, e che Lukashenko non avrebbe mai potuto abbandonare l’orbita di Mosca, se non altro perché Mosca non glielo avrebbe mai permesso, e Bruxelles e Washington non gli avrebbero perdonato vent’anni di repressione politica ed elezioni fasulle.

Rompere con Putin, accusandolo per di più di ingerenza con l’ausilio di “omini verdi”, è più che un insulto: agli occhi di Mosca, è un tradimento. Perché è difficile credere che Lukshenko non sapesse della presenza dei mercenari di Wagner sul suo territorio. Canali Telegram vicini agli insider del Cremlino hanno subito lanciato l’ipotesi che i contractor fossero arrivati a Minsk in transito per il Sudan o la Libia, visto che i voli da Mosca ufficialmente sono bloccati per la pandemia e mandare un aereo militare sarebbe stato troppo vistoso. Dalla negazionista Bielorussia si può volare in tutto il mondo, e Mosca aveva già utilizzato Minsk in anni passati per traffici illeciti di tutto, dagli armamenti all’Iraq al parmigiano ufficialmente proibito dalle sanzioni di Putin. Ovviamente, con il consenso del governo bielorusso. L’altra ipotesi è che i Wagner fossero stati mandati a Minsk in previsione di un Maidan bielorusso, che però sarebbe stato inevitabilmente diretto contro l’inamovibile presidente, che quindi non solo avrebbe saputo, ma probabilmente sarebbe stato lui stesso a richiedere un aiuto da Mosca, che non avrebbe avuto alcun interesse ad appoggiare una rivolta diretta contro l’unico candidato seppure con qualche riserva filo-russo.

Bielorussi alle urne
In entrambi i casi, è evidente che Lukashenko ha violato i patti con Putin e, ancora peggio, con le componenti più hard e vendicative del suo regime. Una scommessa che si può fare in un attacco di follia, oppure quando non si ha più nulla da perdere. Nei sondaggi non ufficiali (quelli ufficiali sono inesistenti) il dittatore gode ormai del 3% dei consensi, e la candidata dell’opposizione unificata Svetlana Tikhanovskaya – una moglie coraggio che corre in vece del suo marito, il blogger Sergey Tikhanovsky, arrestato dopo che ha osato candidarsi – è in testa.

Se il 9 agosto si farà disegnare nei seggi la solita percentuale bulgara, Lukashenko rischia un Maidan che si potrebbe trasformare in Tiananmen. Che però consegnerebbe Lukashenko mani e piedi a Putin. Sapendo anche che l’Europa è troppo impegnata in vicende interne per avere ambizioni extra-Ue e provare a offrire una sponda alle forze filoeuropee della Bielorussia, il dittatore bielorusso ha optato invece per la soluzione estremamente rischiosa di rompere con Putin, presentandolo anzi come il cattivo principale, sperando che in condizioni di “minaccia russa” – ed è paradossale che la reputazione che il Cremlino si è costruito nel mondo ora stia giocando contro di lui – i bielorussi decidano di scommettere su un male fin troppo conosciuto ma comunque minore.