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USA 2020: LA SCELTA DI BIDEN

Da irrilevante a centrale? Lo strano caso della vicepresidenza degli Stati Uniti

3 Ago 2020 - Riccardo Alcaro - Riccardo Alcaro

Negli Stati Uniti sta crescendo l’attesa per la nomina da parte del candidato democratico Joe Biden della sua running mate, la “compagna di corsa” che lo affiancherà come candidata vice-presidente (il femminile è dovuto al fatto che Biden ha promesso che si tratterà di una donna) nelle urne alle elezioni del 3 novembre. Il momento è quindi opportuno per interrogarsi sulle funzioni e sul ruolo del (o della, in questo caso) vice-presidente.

La vice-presidenza degli Stati Uniti è una delle cariche elettive più singolari tra le democrazie moderne. Sulla carta, sembra un affare piuttosto importante. Eppure, come possono testimoniare gli spettatori di serie tv come Veep, la vita dei vice-presidenti può essere avvilente.

I vice possono essere corpi estranei all’amministrazione, poco più di oggetti ornamentali. Lyndon B. Johnson, il vice di John F. Kennedy (divenuto a sua volta presidente dopo l’attentato di Dallas), era escluso dall’entourage presidenziale. Harry Truman apprese dell’esistenza del Progetto Manhattan – l’enorme sforzo con cui gli Usa si dotarono dell’arma atomica nei primi anni 1940 – solo dopo esser succeduto al suo predecessore alla Casa Bianca, Franklin D. Roosevelt.

Origine dell’anomalia
Come si spiega quest’anomalia? Originariamente, l’ufficio di vice-presidente fu inserito nella Costituzione più per motivi procedurali che altro. Ai membri del Collegio elettorale (l’organo formalmente preposto all’elezione del presidente) era inizialmente richiesto di esprimere due preferenze. La carica di vice-presidente andava pertanto al secondo classificato.

Questo sistema naufraga presto. Già nei primi anni dell’Ottocento, il sistema politico è diviso in fazioni, col risultato che la carica di vice-presidente finisce al candidato rivale del presidente. I legislatori Usa ne prendono debitamente atto e con un emendamento costituzionale del 1803 decidono che i Grandi Elettori devono votare separatamente per presidente e vice-presidente.

Da allora, la designazione del candidato vice-presidente passa nelle mani dei partiti. E in effetti, almeno fino alla metà del Novecento, l’importanza della carica è essenzialmente di natura politica. Con l’espandersi e diversificarsi dell’elettorato, i partiti politici si organizzano in grandi coalizioni di gruppi di interesse che si uniscono per fini elettorali. La candidatura vice-presidenziale diventa merce di scambio tra i potenti di partito, che la usano per bilanciare gli equilibri interni.

Sul piano operativo, però, il vice-presidente combina poco. Secondo alcuni giuristi la carica non è nemmeno pertinente al potere esecutivo, bensì a quello legislativo, dal momento che la Costituzione le assegna la presidenza del Senato. Ma si tratta di un potere limitato, visto che il vice-presidente può votare solo per rompere una situazione di stallo (il numero dei senatori è infatti sempre pari, essendo due per Stato).

Anche se le mansioni della vice-presidenza restano modeste, la carica assolve una fondamentale funzione costituzionale, ovvero assicurare la successione presidenziale in caso di incapacità e soprattutto morte del presidente in carica. Tutt’altro che infrequente, questa circostanza si materializza ben otto volte tra 1841 e 1963.

Evoluzione del ruolo
Le cose cominciano a cambiare alla metà del Novecento, per effetto di un duplice processo. Il primo è il ridimensionamento delle macchine di partito per la selezione del candidato presidenziale e la crescente importanza di un rapporto più diretto tra candidato presidente ed elettorato (certificato poi dall’affermarsi delle primarie). La scelta del candidato vice diventa così un modo per sopperire alle carenze elettorali dell’aspirante presidente. Le combinazioni sono molteplici. Candidati presidenziali esperti e dal profilo centrista selezionano vice più giovani e ideologicamente più caratterizzati (e viceversa); candidati con esperienza di politica interna si orientano su vice con forti credenziali di politica estera (e viceversa); e così via.

Il secondo processo è l’espansione del potere esecutivo, un riflesso della crescita dell’apparato statale e della maggiore centralità della politica estera e di sicurezza – costituzionalmente di competenza del presidente – dopo la Seconda guerra mondiale. Dopo che Truman (1945-53) inserisce il vice-presidente tra i membri dell’appena creato Consiglio di sicurezza nazionale, i vice-presidenti vengono progressivamente integrati nei processi decisionali di vertice dell’amministrazione. Questo processo tocca l’apice nei primi anni Duemila, quando Dick Cheney, vice di George W. Bush (2001-2009), accumula su di sé enormi responsabilità di indirizzo in politica estera.

La scelta di Biden
E veniamo così alla scelta di Biden, lui stesso vice di Barack Obama per otto anni (2009-2017), che ha già annunciato che selezionerà una donna, per ovviare al più clamoroso caso di non-rappresentazione dell’elettorato di una democrazia, visto che mai una donna ha occupato la carica di presidente o vice nella storia Usa.

Una previsione che ha preso piede è che sceglierà una donna nera, per galvanizzare la parte di elettorato più sensibile alle rivendicazioni di equità da parte delle minoranze. Ma dovrà anche scegliere una persona di esperienza, perché l’età avanzata (a 77 anni, Biden è il più anziano candidato della storia) rende la prospettiva di un cambio in corsa – per motivi di salute o perché Biden deciderà di non ricandidarsi nel 2024 – tutt’altro che un’ipotesi scolastica.

Insomma, nella vice di Biden si devono sommare tutte le componenti che hanno fatto dell’ufficio vice-presidenziale un elemento più decisivo nella politica e nel governo degli Stati Uniti: appeal elettorale, competenze di governo, rapidità e credibilità della successione presidenziale. Una scelta tutt’altro che facile, ma essenziale alle chance dell’ex vice di Obama di sconfiggere Donald Trump.