Putin trionfa e conta di rimanere fino al 2036. Ma adesso sa di essere in minoranza
Alexey Navalny sembra quasi contento, nel video YouTube diffuso nella notte dello scrutinio dei risultati del voto per la Costituzione di Vladimir Putin (visto in 24 ore da 3,5 milioni di persone), quando denuncia “la più grande falsificazione elettorale di sempre” e delinea ai suoi seguaci con grande decisione e pragmatismo il programma di un autunno caldo: convincete gli indecisi, andate a votare in tutte le elezioni locali per togliere la maggioranza a Russia Unita, e scendete in piazza.
L’ottimismo del leader dell’opposizione russa è fondato: con il voto per la Costituzione – non si può chiamarlo referendum, nemmeno Putin lo definisce così, è una “votazione nazionale eccezionale”, nella quale non valgono le regole elettorali del controllo e della par condicio – il presidente russo ha segnato una svolta che chiude il primo ventennio al potere e apre una nuova fase. Il 78% dei “sì” con il 68% di affluenza viene giudicato dal Cremlino “un trionfo“, ma gli exit poll indipendenti registrano il 55% di intenzioni di voto per il “no”, i sociologi rilevano il 60% dei “no” nei sondaggi e le stime degli esperti di brogli elettorali parlano di 27 milioni di voti falsificati, più della metà del risultato putiniano.
Avrebbero potuto essere anche di più, in una votazione che ha violato qualsiasi regola democratica, tra lotterie con premi nei seggi per attirare gli elettori, pressioni amministrative sui dipendenti pubblici, la possibilità di votare per una settimana sia online che nei seggi improvvisati all’aperto – il voto è stato indetto al picco dell’epidemia di coronavirus – anche più volte, e palesi brogli. Ma proprio questa spregiudicatezza ha segnato uno spartiacque: per la prima volta in vent’anni Putin sa di essere in minoranza.
Una maggioranza che non esiste più
Il 78%, due punti in più delle presidenziali di due anni fa, e più di 50 punti rispetto ai sondaggi sulla popolarità del presidente, è una sorta di fondale dipinto su cartone che nasconde una situazione completamente diversa. La “maggioranza putiniana“, che ha legittimato per vent’anni l’onnipotenza del leader, non esiste più, sostituita da uno scontento diffuso provocato dalla fine del paternalismo alimentato dal petrolio, dalla corruzione, dall’aumento della povertà e, negli ultimi mesi, dalla scarsa gestione dell’epidemia di coronavirus.
Il frigorifero ha definitivamente vinto sul televisore, come dicono i russi, e la sontuosa parata militare in piazza Rossa alla vigilia del voto, insieme agli spot elettorali omofobi e militaristi, hanno forse fatto effetto soltanto sulla fetta più anziana dell’elettorato, quella sulla quale ha scommesso la propaganda. Tutti gli altri – complice un aumento dell’aliquota Irpef e delle bollette proprio alla vigilia del voto – hanno manifestato uno scontento diffuso. Sui social, la valanga di insulti alle star che sostenevano Putin ha convinto molti influencer a prendere le distanze dalla campagna. Ma anche importanti esponenti della stessa élite putiniana, soprattutto deputati locali e sindaci (la nuova Costituzione ridisegna gli equilibri dei poteri a favore del Cremlino, distruggendo di fatto l’autogoverno locale), hanno manifestato il loro dissenso.
Rottura in vista?
La “maggioranza putiniana”, che per anni è esistita nella realtà e non solo nella propaganda, emarginando qualunque tentativo di opposizione, è ora ridotta a un’alleanza della burocrazia con i pensionati. Un quarto dei russi si dichiara pronto a scendere in piazza con richieste economiche, e il sociologo Sergey Belanovsky sostiene che “Putin non ha più ammiratori, chi lo vota lo fa soltanto per la paura del cambiamento”. Quale sarà questo cambiamento, e quando avverrà, resta materia di discussione, ma il programma di Navalny propone un consenso sulle misure non rinviabili: fine della guerra fredda con l’Occidente e riforme economiche e democratiche per aprire la Russia agli investimenti e alla modernizzazione.
Il problema è che dopo il voto del 1° luglio questo programma si potrà attuare soltanto attraverso una rottura. La trasformazione da leader che governa per volontà del popolo in autocrate che insiste a rimanere al potere nonostante lo scontento implica anche l’abbandono, da parte del presidente russo, della pretesa di far parte della comunità internazionale, alla quale per vent’anni ha ambito di aderire come uno degli stakeholder dell’ordine mondiale.
Il surreale plebiscito gli ha dato formalmente il diritto di governare fino al 2036 (quando Putin dovrebbe compiere 84 anni, di cui 36 al potere), ma contemporaneamente lo ha declassato al club degli autocrati asiatici e africani, come si è visto anche alla parata per l’anniversario della vittoria sul nazismo: il Cremlino attendeva Donald Trump e Emmanuel Macron, ma si sono presentati soltanto alcuni khan dell’Asia Centrale ex sovietica, il dittatore bielorusso Aleksander Lukashenko e i leader di due enclave secessioniste georgiane, riconosciute soltanto da Mosca. Il timore delle critiche occidentali è stato per vent’anni un freno di cui Putin ha sempre tenuto conto, ma la Costituzione ora sancisce la supremazia del diritto russo su quello internazionale.
E se Navalny sta pensando a una rivoluzione che passa dalla piazza – “loro hanno la polizia, ma noi abbiamo noi stessi, e siamo di più” – il Cremlino potrebbe pensare a una soluzione Hong Kong, che però la debolezza economica russa renderebbe poco praticabile.