Ombre lunghe sulla sindrome cinese
Era quasi inevitabile che, dopo la stagione delle rozze dietrologie, quella delle teorie cospirative che hanno aleggiato sulla pandemia di Covid-19, e le assicurazioni degli scienziati sull’origine naturale del virus, si facessero strada le ovviamente non documentate rivelazioni dei servizi di intelligence e, con esse, le esternazioni di alcune dirigenze occidentali, in primis quella americana. E si è arrivati alle esplicite accuse in merito alle responsabilità cinesi, omissive e pur commissive, con una escalation di offensive diplomatiche.
Era altrettanto prevedibile che, di fronte alle reviviscenze del virus nei grandi mercati alimentari di Pechino, insorgessero le contro-accuse cinesi sulle infezioni importate da occidente, questa volta veicolate dai “salmoni norvegesi”. È opportuno pertanto cercare di mettere un po’ d’ordine sui punti salienti della vicenda, in diverse occasioni evocata sulle pagine di questa rivista.
Il rischio dello scontro
Nessuno crede con convinzione, neppure il presidente Usa Donald Trump o il suo segretario di Stato Mike Pompeo, che vi sia stato, da parte cinese, un progetto batteriologico ad alto rischio o quanto meno una dolosa disattenzione nella fuoriuscita di virus epidemici in qualche modo ibridati in laboratorio. D’altra parte, anche pur corpose evidenze scientifiche sul sequenziamento del genoma virale mai sarebbero sufficienti, in questi casi, a tacitare narrazioni non tranquillizzanti.
Tutte le potenze, è notorio, assediate dal dilemma della sicurezza, conducono ricerche su armi batteriologiche, d’attacco e da difesa (antidoti) anche se il loro utilizzo è da sempre controindicato, fatta eccezione per fanatici terroristi, e questo per ragioni intuitive: estrema pericolosità nella produzione, manipolazione e dispersione, mutazioni incontrollate, imprevedibilità degli impatti sull’ambiente antropologico e l’ecosistema. Nel caso cinese, data anche la impellenza di bruciare le tappe in ogni ambito delle ingegnerie tecnologiche, è più stretta la commistione tra bio-ricerche a doppio uso, ossia su vaccini e terapie per le patologie virali più insidiose (Sars, ebola, influenze suine e aviarie) e meno esplicite simulazioni, seppur non operative, di batteriologia con possibile rilevanza militare.
Il confronto storico
Nell’evento del Covid-19, tuttavia, basterebbe un’analogia storica a fare un po’ di chiarezza. Scambi feroci di accuse su responsabilità tra gli antagonisti ci furono al tempo della epidemia spagnola del 1918-20. Anzi, gli Imperi Centrali accusarono gli americani di aver piegato la resistenza teutonica proprio con il famoso virus H1N1.
Nel caso del coronavirus sembra improponibile tale riscontro. La spagnola colpiva soprattutto i giovani in età di leva e idonei al combattimento e quindi si poteva pensare a una oscura strategia di intrusione biologica. Il Covid-19, invece, risparmia, o interessa con sintomi irrilevanti, le coorti più giovani fino ai 40 anni, risultando inutile per disabilitare il potenziale umano (il caso della portaerei Roosevelt ne è conferma indiretta: equipaggio contagiato dal Covid-19, ma con sintomi lievi, e quindi unità operativa anche se prudenzialmente rientrata agli ormeggi).
Invece è ipotizzabile, sulla base di alcune evidenze, la fuoriuscita occasionale di materiale biologico dai laboratori di Wuhan. I due laboratori batteriologici di Wuhan, l’Istituto di virologia, classificato al massimo livello di sicurezza (level 4), e il Centro per il controllo delle malattie infettive (situato a poche centinaia di metri da uno dei grandi mercati cittadini) sono stati coinvolti in episodi poco commendevoli di negligenza, corruzione, e incidenti di contaminazione umana di sangue dei famigerati pipistrelli cavia. Secondo fonti riportate anche dalla rivista Foreign Affairs, ci sarebbe di peggio: molti animali cavia, tra cui pipistrelli, suini, pangolini etc, sarebbero finiti in vendita nel vicino mercato di Wuhan. Ma può essere si tratti di leggende metropolitane.
La gestione della crisi
La conduzione iniziale della crisi sanitaria con i tentativi in primis di criminalizzazione dei medici, seguiti da occultamento e disinformazione da parte delle autorità regionali, hanno dimostrato come il centralismo neo-maoista di Xi, con le purghe e le rimozioni massicce di funzionari e burocrati, risulti molto più debole e opaco nell’efficacia e nel carisma di quanto acquisito dalla vulgata corrente. La sostituzione della direttrice dell’Istituto di virologia, la dottoressa Wang Yanyi, di nomina politica, con il maggior generale Chen Wei, grande esperta di guerra batteriologica e molto stimata nei vertici militari, segnalano la delicatezza degli equilibri tra autorità governative e militari che vengono alla superficie in situazioni di emergenza. In vista del Congresso per il centenario del Partito nel 2022, affiorano le antinomie all’interno della nomenklatura con un probabile rafforzamento del ruolo e del peso dell’esercito popolare ai vertici del gruppo dirigente.
È difficile ipotizzare se la scarsa trasparenza nel controllo dell’epidemia, l’appannamento dell’immagine di Pechino all’estero, solo in parte bilanciate dai successi nel contenimento del virus, i sospetti sulla natura (neo-impero, egemonia benevola, o relazioni tributarie?) della Belt and Road Initiative, segnalino anche un indebolimento della leadership di Xi, ovvero l’inizio di una ricontrattazione dei pesi e delle influenze tra la leadership di partito e i vertici militari.
La militarizzazione della crisi sanitaria, con una ulteriore stretta del controllo sociale, le turbolenze in alcuni distretti, Hong Kong e la frontiera di altura indo-cinese, oltre al Sinjang, che hanno impegnato l’esercito in misure deterrenti o repressive all’interno, possono essere segni premonitori di una più accentuata “militarizzazione” anche della linea internazionale di Pechino. L’esercito, di fronte alla percezione della dirigenza del partito di un certo indebolimento della leadership, potrebbe avanzare istanze per una maggiore assertività mirata alle sfide esterne (Kashmir, Taiwan, Mar cinese), che valorizzi il ruolo dei militari in un nuovo mix di hard e soft power, più muscoloso rispetto alla collaudata linea “confuciana” varata da Deng Xiaoping.