Le proteste di Khabarovsk e il popolo ignorato da Putin
Le proteste di piazza a Khabarovsk per il licenziamento e l’arresto del governatore Sergey Furgal hanno guadagnato meno attenzione dei media internazionali rispetto ad altri segnali di giro di vite in Russia: l’incriminazione palesemente architettata del giornalista Ivan Safronov, la condanna al carcere dell’attivista e storico Yuri Dmitriev, la nuova indagine contro Alexey Navalny, l’arresto per “vilipendio delle autorità in rete” del politologo Fiodor Krasheninnikov.
Il licenziamento di un oscuro funzionario di una remota regione dell’estremo Oriente, accusato di omicidi plurimi dei suoi concorrenti di affari all’inizio degli anni Zero, appare in questo contesto più un regolamento di conti interno alla nomenclatura russa che uno scontro tra il potere e l’opposizione liberale. Ma ci sono diversi aspetti che rendono il caso di Khabarovsk uno spartiacque tra il prima e il dopo, nella nuova era della politica russa aperta dal voto del 1 luglio che ha concesso a Vladimir Putin di regnare praticamente in eterno.
La piazza di Khabarovsk
In primo luogo, la portata delle proteste suscitate dall’arresto di Furgal. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza, giorno dopo giorno, in una manifestazione non violenta nei modi, ma violentissima nei toni: i cartelli che chiedevano le dimissioni del presidente e proclamavano “Putin ladro” sono numerosissimi – un fenomeno del tutto inedito fuori Mosca, dove le proteste di solito sono finalizzate a un’esigenza concreta (liquidare una discarica, aumentare i salari ai medici o bloccare un cantiere inquinante).
Khabarovsk è considerata una regione di scontento: lo stesso Furgal, esponente del partito “liberaldemocratico” dell’ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, è stato eletto nel 2018 quasi per caso, battendo il candidato del Cremlino sull’onda della rabbia per la riforma delle pensioni. Il partito di governo Russia Unita prende a Khabarovsk soltanto il 13%.
E questo porta al secondo aspetto peculiare della vicenda: la totale incapacità di Mosca di gestire una crisi di consenso senza precedenti. Nonostante fosse diventato governatore contro il volere del Cremlino, Furgal era più che leale a Putin, e la sua grande popolarità (molto più alta di quella del presidente) serviva semmai a imbrigliare lo scontento.
L’accusa di omicidio appare agli abitanti di Khabarovsk (e non solo) palesemente fasulla: Furgal era stato eletto più volte alla Duma locale e federale, dove aveva perfino presieduto un comitato, e in vent’anni nessuno si era accorto che fosse un assassino plurimo. In compenso, il governatore aveva tagliato le spese e i benefit della burocrazia, presentandosi come un “onesto” che difende gli interessi locali, e il fatto che Putin abbia inviato al suo posto un giovane esponente dello stesso partito di Zhirinovsky che non era mai stato in estremo Oriente ha acceso una forma di nazionalismo regionale potenzialmente pericolosa per il centro.
Maggioranza che non c’è più
E questo porta alla terza novità: con l’arresto di un governatore fedele e addirittura utile, il Cremlino mostra che non cercherà più compromessi non solo con i dissidenti, ma anche con i membri leali del sistema. Il voto sugli emendamenti costituzionali è stato interpretato come un “azzeramento” non solo dei mandati presidenziali di Putin, ma anche di tutti i patti precedenti.
Il Cremlino ha sempre temuto lo scontento, anche perché la forza e la legittimità di Putin si basavano sull’esistenza della sua maggioranza, che rendeva qualunque altro discorso politico marginale ed emarginato. La maggioranza non c’è più, come segnalato dai sondaggi e dai social. Il consenso non esiste più, e paradossalmente il Cremlino decide di non cercarlo. “Il voto sugli emendamenti appare l’ultimo episodio in cui il potere abbia tenuto conto in qualche modo degli umori e delle preferenze dei cittadini. L’attenzione all’opinione pubblica appartiene ormai al passato”, scrive Andrey Perzev di Carnegie Moscow.
Ignorare il popolo
In fondo, tutto ciò ha una logica: se l’opinione pubblica non è più dalla parte del governo, o si cambia governo – ipotesi che in Russia non si può nemmeno discutere – o si cerca di persuadere l’opinione pubblica, o si decide di ignorarla. Sembra che Putin abbia optato per la terza opzione, forse perché considera la seconda faticosa o addirittura impraticabile: le TV nazionali hanno scelto di ignorare la protesta di Khabarovsk, come se non esistesse.
Dopo il “referendum” costituzionale, durato una settimana in totale violazione perfino delle regole elettorali russe, la Duma ha approvato la stessa modalità per tutte le consultazioni elettorali, anche fuori dall’emergenza Covid-19. In altre parole, il consenso non si conquisterà più, verrà imposto, situazione che il nuovo governatore catapultato da Mosca ha spiegato ai suoi neo-concittadini con “è inutile che protestiate, se mi cacciate ve ne manderanno comunque un altro”.
Finito il ventennio della magica sintonia del leader con il suo popolo, si sceglie di ignorare il popolo. Il problema è che oggi il Cremlino non ha le risorse che gli avrebbero permesso di farlo, anche soltanto cinque anni fa.