In Mali c’è voglia di futuro
Le proteste di venerdì 17 luglio hanno mostrato un cambio di strategia del movimento anti-establishment in Mali. Il movimento d’opposizione politica riunito sotto la sigla M5-RFP (Mouvement du 5 juin / Rassemblement des forces patriotiques) ha abbandonato infatti Piazza dell’Indipendenza nella capitale Bamako e le strade delle principali città maliane per pregare nelle moschee per la guarigione degli oltre 120 feriti e per gli 11 manifestanti uccisi durante le proteste del fine settimana dal 10 al 12 luglio.
Le proteste di strada erano cominciate oltre un mese fa, il 5 giugno scorso, data che ha dato il nome al cartello che raccoglie un arcipelago di partiti e altre realtà sociali. L’eterogeneo movimento, che vede spiccare tra i leader la figura dell’imam Mahmoud Dicko, chiede una svolta politica. Le dimissioni del presidente maliano Ibrahim Boubacar Kéita (per tutti IBK) sono certamente tra le richieste scandite dai manifestanti, ma tanti vogliono cambiamenti più profondi, dalle riforme istituzionali a politiche più incisive, dalla scuola alla sicurezza.
Le elezioni per il rinnovo dell’assemblea nazionale tenutesi il 29 marzo e 19 aprile scorsi rappresentano la causa scatenante che ha scoperchiato il vaso di Pandora del malcontento. Dopo un paio d’anni di rinvii (le ultime elezioni legislative si erano tenute nel 2013), le consultazioni sono state contestate per i risultati rivisti dalla Corte costituzionale in favore del partito di IBK.
Uno spazio socio-politico troppo stretto
Le tensioni interne, però, non sono nuove. Nell’autunno scorso il governo maliano aveva organizzato un “dialogo inclusivo nazionale”, ma nel Paese era stato visto da molti come privo dei presupposti minimi per essere uno scambio reale. Il professor Chéibane Coulibaly, dal suo ufficio di Bamako, aveva ben sintetizzato i limiti strutturali presenti nell’attuale architettura politica. Il punto chiave è una vera mancanza della separazione dei poteri e dei ruoli. La figura del presidente accentra troppo potere: nomina il primo ministro, può sciogliere l’Assemblea nazionale, è a capo dell’esercito e controlla la Corte costituzionale. A questo si aggiunge confusione sui ruoli dove i leader religiosi fanno incursione nello spazio politico – come fa da tempo lo stesso imam Dicko – e perdono un potenziale ruolo di mediatori, così come altri attori e poteri locali che sono stati indeboliti e svuotati nel tempo e le figure tradizionali hanno sempre più difficoltà a mediare sui conflitti sociali.
A tutto questo si aggiunge un’insofferenza del potere politico verso le opposizioni e che ha pensato, almeno fino a ora, di poter disporre del Paese e delle sue risorse come meglio crede. IBK sta provando ora a gestire la crisi attraverso piccole concessioni, come l’abrogazione del decreto di nomina dei membri rimanenti della contestata Corte costituzionale o le dimissioni del figlio Karim Keita da presidente della commissione Difesa nazionale, sicurezza e protezione civile dell’Assemblea nazionale (ma non da membro della stessa Assemblea).
“Quando è troppo, è troppo. Si arriva a un punto che le limitazioni sono eccessive, ci si sente stretti tra problemi d’insicurezza, scuole che non funzionano e mancanza di opportunità. Non si può più restare a guardare” spiega un maliano in Italia da molti anni. Questa stratificazione multiforme di stanchezza e insofferenza per l’establishment del Paese lascia presagire che le concessioni di IBK non saranno sufficienti.
Europei spiazzati
In questo quadro in forte trasformazione, la Francia prosegue la guida e l’organizzazione della nuova Coalizione per il Sahel, il raggruppamento di vari sforzi internazionali per contrastare la crescente insicurezza e minaccia terroristica nella regione. L’impressione però è che tra gli attori internazionali e le dinamiche socio-politiche interne sia emersa con più evidenza una frattura.
Certo, a Parigi in Senato si discute di Mali, e le dinamiche interne sono, almeno superficialmente, sulle scrivanie di varie cancellerie e rappresentanze. Ma il contrasto c’è, ed è emerso nella sua drammaticità quando il governo maliano ha inviato le forze speciali antiterroristiche (Forsat) a sparare su manifestanti e civili di passaggio. E mentre emergono dirette responsabilità del governo per le violenze, l’Unione europea non può che interrogarsi su come Forsat sia tra i beneficiari dei training che la missione Eutm svolge per le forze di sicurezza maliane.
Proprio tra marzo e aprile, Eutm aveva organizzato una formazione di tre settimane per formatori di Forsat su “operazioni militari in aree urbane”. Questa dolorosa pagina, che segue vari report sugli abusi delle forze militari maliane, nigerine e burkiné, mostra ancora una volta come gli interventi internazionali nella regione siano tecnici e privi di una strategia politica, oltre che schiacciati sulla risposta militare.
Mediazione internazionale e attivismo maliano
Non è un caso che la repressione violenta ha forzato l’Ue a prendere una posizione più decisa su un altro elemento allarmante di queste settimane: l’arresto dei principali leader delle opposizioni. L’azione di Bruxelles, insieme all’Unione africana e la alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), hanno portato alla pronta liberazione dei leader. Una mossa che quindi può mostrare il ruolo politico che gli internazionali possono avere in questa fase: supporto alle organizzazioni regionali e pressioni per evitare nuovi abusi e aprire la strada del dialogo e delle riforme.
Ne frattempo, ieri è stata lanciata una coalizione di organizzazioni della società civili del Sahel, segno di un forte desiderio di partecipare e di non lasciare solo agli “uffici delle capitali” l’intero processo decisionale. Mentre oggi in Mali molti rimangono a casa per paura delle repressioni – di donne se ne vedono molto poche coinvolte nelle proteste, ma sono attive online e il loro ruolo è limitato, ma in crescita nel Paese – lo slancio partecipativo di queste settimane non sembra un fenomeno passeggero e limitabile con ritocchi cosmetici.