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LA SCOMPARSA DI JOHN LEWIS

I diritti civili contrapposti al potere nero

19 Lug 2020 - Massimo Teodori - Massimo Teodori

Quando pubblicai negli Stati Uniti The New Left. A documentary History (Bobbs Merril, 1969) e in Italia La nuova sinistra americana (Feltrinelli, 1970), il primo documento che inserii nella sezione dedicata ai diritti civili fu Una seria rivoluzione, il discorso di John Lewis pronunciato alla “marcia per il lavoro e la libertà” di Washington guidata da Martin L. King nell’agosto 1963.

Quella marcia era stata organizzata dall’insieme dei gruppi per i diritti civili: Urban League, Naacp, Core e Sclc guidati da Philip Randolph, Bayard Rustin, Roy Wilkins, ed anche dai militanti dello Sncc, presidente John Lewis. Lo Student Nonviolent Coordinating Committee era il gruppo dei giovani attivisti che, alla testa della popolazione delle chiese nere del sud, avevano condotto le campagne antisegragazioniste improntate all’azione nonviolenta (Freedom rides, Freedom ballot, Freedom Democratic party, Sit-in Teach-in...) sotto attacco delle polizie del sud razzista.

Dal 1965 al 1970 ero al campus di Berkeley, California. Ho frequentato gli amici della Students for a Democratic Society (SDS)  – Tom Hayden, Todd Gitlin, Carl Oglesby, James Weinstein,  Mario Savio, “Ramparts“, e gli storici Howard Zinn e Staughton Lynd – ed ebbi l’occasione di incontrare i giovani attivisti reduci dalle campagne nel Dixie tra cui John Lewis a cui chiesi l’autorizzazione di pubblicare nel libro sulla nuova sinistra americana il suo  discorso, il più rappresentativo della stagione dei diritti civili.

“Noi marciamo, oggi, per il lavoro e la libertà, ma non abbiamo motivo di essere orgogliosi dal momento che centinaia e migliaia di nostri fratelli non sono qui: non hanno soldi per viaggiare perché prendono salari da fame […] se non addirittura nessun salario […] Quella in cui siamo impegnati è una rivoluzione seria […]”

La rivoluzione nonviolenta dice: “Non aspetteremo che i tribunali emettano le sentenze, o il Congresso, poiché abbiamo atteso per centinaia di anni […] Invaderemo le strade di ogni città, di ogni villaggio di questa nazione, sino a che non avremo conquistato la vera libertà. Fino a che la rivoluzione non sarà completa”.

Quando l’ultimo presidente dello Sncc, Stockely Carmichael, proclamò a metà ’60 la svolta del “potere nero” sull’onda delle critiche che Malcom X rivolgeva ai metodi nonviolenti di King e Lewis, il giovane militante rimase fino all’assassinio del 1968 con il pastore nero, fedele alla via integrazionista che si contrapponeva a quella violenta di “autodifesa” e separatista di una parte del potere nero e delle pantere nere che nel giro di una stagione finirono nel sangue.

Lewis ha continuato per sessant’anni a percorrere la sua strada divenendo uno dei maggiori leader del popolo nero al Congresso, dove è stato ininterrottamente eletto dal 1986 in un collegio di Atlanta, e lavorando a fianco dei presidenti degli Stati Uniti più attenti alle questioni dei neri, da ultimo Barack Obama che gli ha conferito la massima onorificenza della nazione. Sarebbe però fuori luogo considerare l’onorevole Lewis come un “integrato” che ha messo da parte le lotte per la libertà, il lavoro e la pari dignità umana non solo dei neri, perché è stato sempre pronto a scendere in strada (con 44 arresti), tutte le volte che si rendeva necessario.

Questa mi pare la lezione che si può trarre da una lettura non ideologica della storia americana del dopoguerra. Tutte le volte che la minoranza nera si è mobilitata con fermezza, ricorrendo magari alla disobbedienza civile nonviolenta di massa, gli effetti positivi generali sono stati evidenti. Quando, invece, è stata imboccata la strada della rivolta violenta, altrettanto evidenti sono stati gli effetti negativi, allora con il passaggio dai diritti civili al potere nero e, oggi, con analoghe tendenze.