Come il lockdown ha cambiato il nostro lavoro. Parla Silvana Sciarra, giudice della Corte costituzionale
L’emozione di affrontare di nuovo un’udienza pubblica di persona, di poter maneggiare i fascicoli e non il computer di casa, ma soprattutto, di poter essere di nuovo tutti e quindici insieme, nel Palazzo della Consulta. Silvana Sciarra, giudice della Corte costituzionale da sei anni, quinta donna che ne entra a far parte, ci accoglie nella sua stanza, la stessa che ha dovuto salutare con l’inizio della pandemia di coronavirus, per poi tornarci ufficialmente a giugno. “Mi sono un po’ pentita di non aver preso appunti personali durante questo periodo”, ammette. “Mi sono collegata subito dopo l’emanazione dei decreti d’urgenza dalla presidente per consentire il lavoro da remoto dei giudici. Avevo un po’ di preoccupazioni, ma per fortuna ne ho imparato l’utilizzo”. E il lockdown si lega inevitabilmente a uno dei temi a lei più cari: i diritti dei lavoratori. Per rimediare, secondo la Sciarra, si potrebbe pensare a una “Carta dei lavoratori agili“.
Professoressa Sciarra, lei è la quinta donna entrata a far parte della Corte costituzionale, ma è la prima ad essere stata eletta dal Parlamento. Cosa significa per lei?
“Devo dire che porto questo orgoglio, ma anche questa responsabilità sulle mie spalle da quando sono qui. Tutti i giudici, indipendentemente dalla loro provenienza, sono figure che devono manifestare la loro indipendenza e imparzialità in tutte le occasioni. L’essere stata eletta dal Parlamento è stata per me un’occasione della vita incredibile, che ha aperto nuovi spazi di responsabilità nella mia professione. Come lei sa, vengo dall’università e ho cercato di vivere quell’esperienza accademica con impegno e molta dedizione verso gli studenti. Questo è un impegno molto diverso, che ha risvegliato delle parti del mio impegno professionale molto particolari, di grande responsabilità. Sento davvero il bisogno di studiare molto, di prepararmi e cerco di non deludere i mie colleghi”.
La pandemia ha messo in grave rischio i lavoratori italiani, molti hanno perso il lavoro, mentre molti altri si sono ritrovati a tornare con poche garanzie. Lei che si è sempre occupata dei diritti dei lavoratori, cosa ne pensa a riguardo? Sono necessarie nuove norme e leggi per gestire le conseguenze dell’emergenza sul mondo del lavoro?
“La pandemia ci ha fatto riflettere. Il lavoro è stato al centro delle contraddizioni e dei problemi, ma anche delle soluzioni. Tutti abbiamo ben chiaro che si è cercato di combattere il contagio tenendo a casa molti lavoratori, però si è anche chiesto di svolgere la propria attività a coloro che hanno fornito servizi essenziali. Quindi, non soltanto negli ospedali, il lavoro è stato un elemento centrale. Ho sempre pensato che le legislazioni di emergenza devono essere circoscritte, limitate all’emergenza, e non si deve mai dimenticare, anche durante l’emergenza, il rispetto dei diritti fondamentali. Questo vale anche per le regole sul lavoro. Ho trovato molto interessante che in Italia e in altri Paesi europei, l’allarme ha riportato sulla scena le parti sociali. Sappiamo che il governo italiano ha richiamato le parti sociali a una consultazione per la firma di un protocollo sulla prevenzione dei rischi da contagio. Si sono innestati, su questo protocollo, degli accordi aziendali che ritornano a una vecchia tradizione italiana di coesione tra l’impresa e i lavoratori nella tutela della salute. Certo, questo non è abbastanza, perché ora servono delle misure per conservare il lavoro, quando sarà possibile, e creare nuovo lavoro. Questa è la grande sfida che ci attende. La dimensione emergenziale, però, deve essere sempre circoscritta e, quindi, quando finalmente potremo capire meglio l’orientamento del rischio da contagio, nuove misure entreranno nella normalità della gestione dei rapporti lavorativi. Un esempio può essere quello del lavoro cosiddetto “agile“, perché anche questo è stata una misura d’emergenza. L’Italia non prevedeva un ricorso così massiccio al lavoro da remoto, in certi casi reso anche necessario, perché la legislazione italiana prevede formule più leggere di consenso, facoltà e limitazione del lavoro da remoto. Su ciò bisognerebbe forse riflettere. Forse potremmo parlare di una sorta di “carta dei diritti dei lavoratori agili“, che devono essere salvaguardati anche nella tutela della salute e dei ritmi di lavoro. Il luogo di lavoro, in realtà, non è necessariamente di alienazione, ma di crescita collettiva, di confronto con gli altri, di crescita professionale”.
Durante l’emergenza, ci sono stati, un po’ in tutta Europa, dei tipi di lavoro che si sono rivelati fondamentali per la società, penso ad esempio ai riders il cui lavoro è aumentato notevolmente durante il lockdown, per la consegna di farmaci o spesa. Può dirci se e quanto il diritto del lavoro europeo è preparato e flessibile in caso di emergenze come quella che abbiamo vissuto?
“Questo è il grande tema che sta occupando i giuristi del lavoro in tutta Europa e non solo. È recentemente uscito il libro di uno studioso americano, che è stato anche ministro del Lavoro nella prima amministrazione Clinton, Robert Reich, che si occupa dei riders. Lui li chiama lavoratori essential, perché durante la pandemia sono stati essenziali per chi rimaneva a casa. Io abito a Firenze e ho sperimentato le strade vuote con brevi uscite e c’erano queste biciclette che sfrecciavano. Erano speso lavoratori di colore, non necessariamente italiani, che sembravano avere energie inesauribili. Li vedevi continuamente consegnare farmaci e cibo. Queste figure sono diventate centrali nelle riflessioni del diritto del lavoro, perché in Italia abbiamo già una leggera normativa e importanti decisioni della Cassazione, e anche nel resto d’Europa si stanno avendo le prime decisioni delle Corti. È interessante vedere un lavoro ancora una volta distaccato dalle tradizionali forme, perché non c’è il luogo di lavoro, ma una piattaforma. Proprio durante il lockdown, mi è capitato di commentare in un webinar il libro di un collega americano tradotto dal Mulino sui riders e sul confronto di queste nuove fragilità, rispetto alle fragilità emerse dalla crisi economica di 10 anni fa. Al tempo abbiamo sperimentato le misure di austerità, oggi sperimentiamo queste fragilità nel mercato del lavoro che devono ricevere delle tutele precise, perché alcuni riders non vogliono essere troppo condizionati da schemi tradizionali. C’è un tentativo di riscontro collettivo di queste figure, perché ci sono discussioni sull’esercizio di diritti collettivi, forse una rappresentanza, ma i riders sono figure molto individuali, ciascuno lasciato alla gestione del tempo inflessibile. Questo fa riflettere, perché il diritto del lavoro deve sperimentare nuove formule di tutela, come sta già in parte facendo. Trovo molto interessante il confronto comparato su questi punti. Ancora oggi i giuristi del lavoro, che hanno una forte tradizione nel campo della comparazione, si ascoltano e si raccontano le esperienze nazionali per capire come procedere in modo migliore”.
Durante questa fase di ripartenza, quanto è importante che l’Unione europea si muova in modo simmetrico a livello legislativo, soprattutto per quanto riguarda la ripartenza economica, quindi gli aiuti alle imprese e il reinserimento nel mondo del lavoro di quei lavoratori, uomini e donne, che sono stati fermi per mesi, seppur in modo diverso da Paese a Paese?
“Sono sempre stata appassionata di temi europei e ho avuto la fortuna di insegnare all’Istituto europeo di Fiesole per quasi nove anni e di insegnare un corso di Diritto sociale europeo nell’Università di Firenze, nella quale ho lavorato prima di andare alla Corte. Ho sempre creduto che, soprattutto agli studenti e alle generazioni più giovani, dovesse essere fornito un messaggio positivo. Non intendo positivo nel senso di acritico, perché ci sono tante critiche da rivolgere all’Europa, però ho sempre creduto nelle sinergie delle politiche europee. Credo che questo sia un momento di sinergie, che andrebbero molto favorite. Per sinergie intendo che nel campo delle politiche sociali, ad esempio, dove alcune cose erano state avviate prima della pandemia, perché l’attuale presidente della Commissione europea e il suo predecessore avevano lanciato una novità, che adesso è realtà, ovvero il “Pilastro dei Diritti sociali europei“. Sembrava una misura leggera e declamatoria, come spesso successo in Europa, ma invece si sta rivelando la base delle iniziative legislative importanti. Il Pilastro dei Diritti sociali va nel cuore del diritto sociale europeo, che ha temi di grande rilievo. Tra questi, vi è quello del salario giusto, dignitoso e sufficiente. Tutte le organizzazioni internazionali parlano di salario. Prima della pandemia, la presidente della commissione Von der Leyen aveva fatto nuovo, perché c’era stato silenzio per anni a riguardo, e lanciato quella che il Trattato sul funzionamento del Diritto europeo chiama “consultazione delle parti sociali per avviare un’iniziativa legislativa”. Lo ha fatto proprio sul tema salari. Questo è un tema molto controverso, perché non rientrerebbe nelle competenze del Trattato, anzi ne sarebbe escluso. Lei, nel consultare le parti sociali, cioè includerle nel processo di formazione della legge europea, vuole ascoltarle per capire se c’è una base comune nelle diverse realtà nazionali per mettere insieme delle proposte legislative. Questa prima ampia consultazione si è fermata, perché è intervenuta l’emergenza, però mi risulta che verrà ripresa”.
Professoressa Sciarra, in uno dei momenti più critici per l’economia europea, la Germania ha iniziato da luglio la presidenza di turno dell’Unione europea. Lei che cosa si aspetta?
“Sarà interessante vedere cosa farà la presidenza tedesca nel semestre, perché la Germania è uno dei Paesi in cui, a seguito di impulsi che venivano dal Consiglio europeo, era stata adottata una legge sul salario minimo, che gli esperti dicono stia avendo esiti positivi. Poi, naturalmente, c’è il tema della salute. La condivisione di misure europee sarebbe una grande novità. Potremmo immaginare che i finanziamenti destinati soltanto al sistema sanitario, pur non potendo anticiparne le modalità, siano diretti non solo a incrementare l’occupazione in quel ramo delle attività essenziali, ma anche a formare nuove figure in quel settore. L’altra grandissima novità è lo strumento Sure, che dovrebbe essere uno strumento europeo di sostegno al reddito e di contrasto alla disoccupazione. Esiste già un documento, ma le linee guida sono ancora in fase di lavorazione e forse poi ci sarà un accordo sull’implementazione di questa misura. Ancora non sappiamo come si potrà intervenire, ci sarà un meccanismo complesso con un fondamento nel trattato. Però si crede che si potrà fare molto, ad esempio, sulla gestione dei tempi di lavoro, che abbiamo avuto anche noi in Italia con i contratti di solidarietà, per la riduzione dell’orario per salvare occupazione. Si potrebbe fare tanto anche sui temi della formazione professionale per chi è fuori dall’attività lavorativa. Questo è ancora difficile da enucleare, ci si chiede se il sostegno al reddito e al contrasto della disoccupazione arrivi a lambire il tema delle politiche attive, cioè non più il sostegno al reddito che lascia i lavoratori inattivi, ma uno che li vede attivi nell’acquisizione di nuove competenze e nella ricerca di lavoro. Questi grandi temi devono essere coordinati a livello europeo e devono vedere gli Stati membri concordi nell’adozione di queste nuove misure. Sono ottimista su questo fronte, perché credo che questo sia un momento di rilancio. Per la grande ammirazione che ho nei confronti della cancelliera Merkel, mi auguro che possa dare quell’impulso che le abbiamo visto essere incisivo, anche su questi temi sociali, perché l’Europa sociale in questo momento deve davvero rinascere dalle ceneri”.
L’Unione europea è determinata ad utilizzare come piano di rilancio economico il Green Deal. Quanto è preparato il mondo del lavoro italiano, sia a livello legislativo che pratico, a mettere in atto questo piano di rilancio europeo?
“Questo è un punto critico. Quando fu lanciato anni fa questo programma della Commissione europea, che si chiamava Europa 2020, uno dei punti forti era l’economia verde, la formazione di profili professionali e le energie rinnovabili. L’Italia è privilegiata, come molti Paesi del sud Europa per un certo tipo di energie rinnovabili perché sfrutta un clima favorevole. Però, si è anche letto che la formazione delle figure professionali che avrebbero dovuto dare corpo a queste nuove politiche dell’economia verde, non erano state preparate in tempo per rispondere a questa esigenza. Su questo bisognerebbe lavorare d’anticipo, cioè individuare quali sono le figure professionali di cui ha bisogno l’Europa, e non i singoli Paesi. Anche se potrebbe essere difficile cogliere questo tema ora che siamo tutti fermi e forse spaventati dall’attraversare i confini: l’Europa del lavoro è un’Europa di circolazione. Le persone che lavorano dovrebbero avere qualifiche professionali certificabili ed esportabili in altri Paesi. Questo, nel campo dell’economia verde, era la sfida di allora. Ora vediamo che la sfida della green economy, che non riguarderà solo il lavoro, ma soprattutto le politiche ambientali in senso lato, si occupa anche di questo, perché è necessario qualcuno che lavori nell’economia verde e che sappia cosa fare. Anche in questo, io sono ottimista. C’è anche il tema dell’economia e del lavoro sostenibile, in cui intervengono le politiche ambientali che sono anche politiche della gestione delle aziende, perché la sostenibilità è innanzitutto all’interno dei luoghi di lavoro e i diritti nei luoghi di lavoro, riscoperti con la pandemia e che non vanno dimenticati”.
Lo scorso 5 maggio la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata in merito agli aiuti finanziari agli Stati europei maggiormente colpiti dall’emergenza. Il fatto ha creato molto scalpore. Nella struttura dell’Ue, quanto valore ha la collaborazione tra le Corti nazionali e quella europea?
“Una delle grandi sorprese in questo lavoro è stato scoprire quanto le Corti costituzionali europee sono collegate in reti, perché ce n’è una europea e una addirittura mondiale, e quanta collaborazione ci sia, con scambi bilaterali o quadrilaterali, come quello a cui partecipa la Corte italiana. C’è un grande spirito di confronto tra le Corti europee e non solo. Questo è rassicurante, perché le Corti si devono confrontare. C’è confronto, non solo dialogo, visto che ogni Corte ha una tradizione, metodi e tecniche decisionali diverse, quindi non lavorano sempre tutte nello stesso modo. Ci sono, però, punti di confronto estremamente interessanti e ascoltare gli altri stimola a fare meglio, a fare delle innovazioni. Ad esempio, la Corte italiana ha guardato quella tedesca nell’applicare la decisione sul rinvio al Parlamento con un tempo definito, come con il caso Cappato. In quel caso, la Corte tedesca ci ha insegnato una tecnica. Con questa sentenza, la Corte tedesca ha fatto in effetti un passo in più, anche se non nuovo, perché ha un rapporto molto dialettico con la Corte di Lussemburgo, come si evince da storiche decisioni come la firma del Trattato di Maastricht o di Lisbona. Recentemente, ci sono state decisioni in cui molti commentatori hanno notato la differenza di tono usata dalla Corte tedesca, rispetto a quella italiana, come quando la Corte italiana ha inviato alla Corte di Giustizia, al mittente, il famoso caso Taricco per indicare una propria autonomia sulla scelta di alcuni parametri interni. Mentre la Corte italiana era dialogante, quella tedesca era più puntuta nelle sue osservazioni. Ora lo sta facendo ancora una volta. Nella sentenza tornata alla corte di Karlsruhe, dopo un rinvio pregiudiziale nel caso Weiss, provocato da un ricorso di 35 deputati, la Corte tedesca attacca un’istituzione europea, la Banca centrale europea, perché ritiene che la Bce stia espandendo le sue competenze. La Corte tedesca ha lavorato molto sul tema delle ricadute dirette e indirette. Sostiene che ci siano delle ricadute indirette quando la Bce fa politiche di acquisto di titoli, non perché sta violando il Trattato, ma perché sta indirettamente entrando in sfere che non le competono, quindi le politiche fiscali. La Corte tedesca ha perciò dato il termine di tre mesi alla Bce. Non voglio però leggere questo termine come una minaccia e non voglio nemmeno essere troppo accondiscendente, perché ci sono critiche forti a questa sentenza che per alcuni è sbagliata”.
La Germania ha da sempre la preoccupazione che si vada oltre le competenze di attribuzione e che si espandano le competenze. Secondo lei qualcosa è cambiato?
“Vedo che in questo caso c’è una tecnica che la Corte tedesca usa spesso, quella di chiedere informazioni. In questi tre mesi vuole capire di più e vuole che la Bce spieghi ciò che sta facendo. Potrebbe anche essere vista come una tecnica di confronto tra istituzioni. Certamente, qualcosa si è smosso, perché dopo questo passo forte, la presidente della Bce ha rilasciato un’importante intervista al Financial Times, e la Corte di Giustizia europea, con un comunicato stampa immediatamente successivo alla sentenza, ha risposto agli interrogativi dei Paesi dicendo che i servizi dell’istituzione non commentano mai le sentenze di una Corte costituzionale, e che però le sentenze in via pregiudiziale vincolano i giudici nazionali per le controversie pendenti. La Corte di Giustizia, quindi, rispetta la Corte tedesca ma ricorda le sue prerogative: applicazione uniforme del diritto europeo e competenza nel giudicare se un atto di un istituzione, in questo caso la Bce, ha violato i trattati. In questo garbato richiamo, la Corte di Lussemburgo ricorda le sue prerogative, perché è lei che interpreta i trattati e decide se un’istituzione europea ha violato il trattato. La Germania ha da sempre la preoccupazione che si vada oltre le competenze di attribuzione e che si espandano le competenze. I tedeschi non sono i soli, qualche anno fa c’è stato un caso clamoroso, che però è caduto nel nulla, della Corte Costituzionale suprema danese che non ha osservato il responso della Corte di Giustizia europea, prendendo una decisione contrastante. Tutti si aspettavano una procedura di infrazione, ma non mi sembra ci sia stata. Riguardo la sentenza della Corte tedesca, starà agli economisti, come l’esperto Bini Smaghi che sembra essere molto critico, giudicare i contenuti. Il tema centrale della sentenza sembra essere la proporzionalità, che naviga tra i diversi sistemi, ma è interpretata in modo diverso. In questo caso, la proporzionalità della Corte di Giustizia è diversa da quella che vorrebbero leggere i giudici tedeschi. Non credo che ci sarà una procedura di infrazione prima dei tre mesi, ma sono curiosa di vedere cosa accadrà dopo, perché saremo ancora nella presidenza tedesca. Alcuni esponenti politici hanno già preso iniziative, come se il governo tedesco avesse preso una posizione autonoma rispetto alla Corte, c’è un interpello al Parlamento europeo, c’è un movimento di opinioni. Non si possono turbare gli equilibri politici, ma anche le Corti costituzionali (chiaramente questa non è una critica rivolta alla Corte tedesca) devono contribuire all’integrazione europea, perché sono anche loro soggetti dell’integrazione”.
Come è stato affrontare il lavoro per la Corte costituzionale, ad esempio udienze che erano pubbliche, nel periodo del lockdown?
“La ringrazio per questa domanda, perché mi sono un po’ pentita di non aver preso appunti personali durante questo periodo. Sono state per me emozioni molto forti, mi sono collegata subito dopo l’emanazione dei decreti emanati d’urgenza dalla presidente per consentire il lavoro da remoto dei giudici, quindi mi sono subito preparata con la piattaforma. Avevo un po’ di preoccupazioni, ma per fortuna ne ho imparato l’utilizzo e mi sono collegata da casa mia, da dove ho osservato rigorosamente il lockdown – salvo quelle piccole uscite di cui ho parlato prima in cui osservavo i riders. Ho visto i miei colleghi sui quadratini della piattaforma e li sentivo molto vicini, ritrovavo lo stesso spirito, anche se con un pochino di difficoltà, perché qui ci guarda negli occhi, ci si dà un sorriso o una pacca sulla spalla e qualche volta si ha anche un dissenso. Questo era un po’ complicato dai quadratini, però ce l’abbiamo fatta. È stato emozionante tornare a Roma. Sono tornata a giugno e ho ripreso i contatti con le carte, perché ho lavorato quasi sempre con materiale elettronico. Ho avuto il gusto di rivedere i fascicoli, che sono quasi riposanti rispetto ai computer. Martedì scorso c’è stata la prima udienza pubblica in presenza. Ci siamo riuniti in un luogo che non è quello normale della Corte, perché ci sono spazi più ampi che consentono il distanziamento, abbiamo indossato le mascherine e gli avvocati sono stati molto rispettosi. Direi che questa esperienza estremamente emozionante è andata bene. Siamo stati tutti molto contenti di rivederci e di essere di nuovo quindici, non intorno al nostro bellissimo tavolo della Camera di Consiglio, ma non meno bene in questo salone messo a disposizione”.